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L’udienza è cominciata alle 9.30. “È un giorno triste” e’ stato l’unico commento di Silvana Smaniotto, la mamma di Nada Cella. Con lei in aula anche la sorella maggiore di Nada, Daniela e la nipote. In aula non sono presenti né Marco Soracco né la madre.
Le accuse
Quello di Nada Cella secondo l’accusa fu un delitto d’impeto, ma nato dal desiderio che aveva Cecere di sistemarsi sia lavorativamente, sia sentimentalmente, visto che puntava a fidanzarsi e sposarsi con Soracco. All’epoca gli investigatori svolsero male le indagini, concentrandosi esclusivamente su Soracco e ignorando diversi indizi importanti che avrebbero potuto portare a Cecere (che fu indagata solo per pochi giorni).
Cecere secondo l’accusa avrebbe ucciso Nada Cella “per motivi di rancore e gelosia verso la vittima per via della posizione da lei occupata all’interno dello studio di Soracco e la sua vicinanza a costui”. Anche Marco Soracco, all’epoca principale sospettato del delitto, avrebbe gravi responsabilità nell’aver coperto di delitto, così come la madre di quest’ultimo Marisa Bacchioni: secondo gli investigatori della squadra mobile fare il nome di Cecere e ammettere che lui conosceva quella ragazza-madre che gli faceva avances avrebbe potuto avere ripercussioni negative sulla reputazione della famiglia.
Il bottone ritrovato
Tra le 90 pagine che mettono in fila gli elementi in mano all’accusa, uno dei più potenti, è la nuova comparazione tra il bottone rinvenuto sotto il corpo della vittima e le fotografie di due, pressoché identici, trovati nell’alloggio di Annalucia Cecere nell’estate 1996. All’epoca gli investigatori si erano limitati a un confronto indiretto tramite fotografia, senza acquisirli fisicamente, ma il lavoro condotto oggi su quel fronte è più profondo di allora. Sono stati anche interpellati i massimi esperti in bottoni del Paese. Secondo quanto emerso il bottone trovato sul luogo del delitto è compatibile con quelli trovati a casa di Cecere e se non fu giudicato tale è perché non era stato preso in considerazione un anello di plastica che lo ricopriva. Era fra l’altro un bottone abbastanza difficile da reperire sul mercato all’epoca, appartenente a un giubbotto maschile che secondo l’accusa apparteneva all’ex fidanzato di Cecere.
Poco si è riusciti a cavare dal Dna sulla scena del crimine, seppur rianalizzato con le più moderne tecniche dal genetista Emiliano Giardina. Tutto quello che è emerso è che appartiene a una donna. Nient’altro, poiché il campione è parziale, la conservazione non è stata ottimale.
I testimoni
Poi ci sono i testimoni oculari ma o sono morti oppure, nel clima di omertà che ha pervaso Chiavari in quel periodo, sono sempre rimasti anonimi. In diversi videro una donna fuggire dal luogo del delitto, in motorino e in un caso sporca di sangue. La più rilevante, una mendicante che si trovava a pochi metri dal portone di piazza Marsala, non è più in vita. Una sola delle fonti anonime è ancora in vita ed è stata identificata: è una donna che abitava accanto a Cecere in piazza Dante a Chiavari: ha raccontato che Cecere le aveva confidato di aver fatto proposte sentimentali a Soracco e che quella mattina del 6 maggio Cecere era uscita di casa molto prima del solito e anche che quel giorno eccezionalmente aveva poi steso tutti i vestiti lavati, comprese le scarpe e alcuni stracci. Ancora: c’è la figlia della vicina di casa che indicò nelle 9 l’orario d’ingresso nello studio da parte di Marco Soracco. Secondo la Procura quindi Soracco vide Cecere subito dopo il delitto (commesso alle 9.01 del mattino) ma il commercialista ha sempre negato, dicendo di essere sceso circa 15 minuti dopo, di aver visto Nada in una pozza di sangue e di aver pensato a un malore.
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