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dal nostro inviato
VERBANIA Chi li ha visti racconta che dopo la prima notte in carcere, cella singola in isolamento, i tre fermati apparissero frastornati ma tranquilli, come se non avessero ancora realizzato quanto accaduto. Erano trascorsi tre giorni dalla strage della funivia del Mottarone che ritenevano improbabile quanto due numeri uguali che escono consecutivamente sulla roulette: il cavo che si spezza e il freno di emergenza che non funziona perché disattivato. Invece è successo e ora che hanno avuto un po’ di tempo per pensarci su devono confrontarsi con l’abisso di quattordici morti e una linea di difesa da approntare in vista degli interrogatori di convalida del fermo fissati per domani. C’è che si è liberato di un fardello e trova confronto nella fede, chi pensa già ai risarcimenti delle vittime e chi rifiuta di essere trascinato a fondo dalla scelta sconsiderata - e condivisa, secondo i pm - di inserire le ganasce.
LA RELIGIONE
Ad ammetterle di averle innescate è Gabriele Tadini, 63 anni, direttore del servizio, al lavoro nell’impianto domenica scorsa. «Prego per le vittime e per la mia famiglia, mia moglie e mio figlio», ha detto al suo avvocato Marcello Perillo che è andato a trovarlo in carcere parlando con lui per un paio d’ore. «È molto religioso e si sta rifugiando nella fede», spiega il legale.
LO SCONTRO
Battagliero invece è il capo operativo Enrico Perocchio, che respinge le accuse e sconfessa la deposizione di Tadini. È in cella perché, come i suoi colleghi, secondo i pm potrebbe scappare. «Ma quale pericolo di fuga, il mio assistito vive in provincia di Biella e martedì sera ha preso l’auto, ha percorso circa 90 chilometri ed è andato dai carabinieri a Stresa», afferma il suo avvocato Andrea Da Prato.
Per il quale «non ci sono i presupposti per la convalida del fermo», che secondo la norma richiede il concreto pericolo di fuga. «Fermarlo di notte sapendo che ha un legale di fiducia che risiede in Toscana mi sembra una bella brutalità», sottolinea. E ora tra Perocchio e Tadini è scontro aperto. Il capo operativo dice di aver appreso dei forchettoni «da una concitata telefonata fatta da Tadini domenica alle ore 12.09». Tadini ha detto: «Ho una fune a terra e ho i ceppi su». L’ingegnere capisce che si tratta delle pinze ma «non ha neanche il tempo di rispondere che la telefonata finisce. Quindi sale in macchina e si reca al luogo dell’incidente». Afferma il suo avvocato: «Vedremo se Tadini ripeterà quanto sostenuto anche davanti al giudice».
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Il Messaggero