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Dieci minuti per smontare per raccontare la sua verità su un mistero lungo 21 anni. Franco Mottola, ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, rompe il silenzio. Dopo aver rinunciato all'interrogatorio, ha rilasciato spontanee dichiarazioni dinanzi alla corte d'assise di Cassino dov'è imputato di concorso in omicidio assieme alla moglie Anna Maria e al figlio Marco. Alle 10.34, in apertura della 39esima udienza, si è seduto dinanzi alla corte, ha estratto dalla giacca un foglio ed ha letto le «sue verità», a pochi metri dalla moglie e dal figlio che alle ultime due udienze si erano già dichiarati «innocenti».
«Sono innocente, siamo innocenti: Serena non è mai venuta in caserma. Assolutamente mai», ha esordito sulla scia di quanto detto dai suoi familiari. Ma a lui carabiniere, in posizione di garanzia per legge, vengono imputati depistaggi e manovre da zona grigia.
«Io - ha detto Mottola, rivolgendosi alla corte con tono di voce fermo - non ho depistato nulla, e non avrei potuto farlo, ho fatto il mio dovere, agendo su delega del capitano Trombetti e dei pubblici ministeri. Facevamo riunioni operative ed ho segnato i tutti i dettagli dell'attività di indagine su un'agenda che compilavo assieme a Quatrale: il capitano Trombetti ne era al corrente».
In particolare Mottola si è soffermato sugli ordini di servizio che per i pm sono stati manipolati al fine di evitare il coinvolgimento di altri due carabinieri, sull'auto del figlio, la Y10, sulla quale Serena sarebbe salita la mattina del primo giugno, sul ritrovamento del cellulare della 18enne e sulle presunte mancate verbalizzazioni delle informazioni che Carmine Belli il pomeriggio del 2 giugno 2001 avrebbe fornito sulla presenza di Serena al bar di Chioppetelle. «Quando Belli sostiene di essere venuto in caserma - ha specificato - ero in elicottero con il capitano Trombetti per ispezionare dall'alto la zona da Arce a Sora, perchè ho sempre fatto il mio dovere».
All'ex maresciallo viene contestato di aver manipolato le prime indagini per allontanare i sospetti dal figlio Marco che, per la procura, la mattina del primo giugno 2001 avrebbe fatto entrare Serena in caserma e qui l'avrebbe aggredita spingendola contro una porta prima di soffocarla con un sacchetto di plastica attorno al capo.
L'arma del delitto è stata individuata dall'accusa nella porta, sulla quale è stato trovato un segno di rottura, ma l'ex militare ha sostenuto che «non può essere l'arma del delitto» perché quel colpo alla porta lo avrebbe sferrato lui dopo un litigio con il figlio. «Marco mi disse - ha spiegato ancora - che non voleva più andare a scuola, ebbi uno scatto d'ira e sferrai un pugno alla porta del bagno del nostro alloggio dopo che lui era andato via». La porta, sequestrata in un alloggio diverso, sarebbe stata spostata.
«L'ho spostata io», ha sostenuto «Per non litigare con mia moglie e per evitare discussioni, decisi di portare via la porta. Se la porta fosse l'arma del delitto, vi pare che dal 2001 al 2002 non avremmo potuto aggiustarla oppure coprire il danneggiamento»
Ha concluso, sostenendo «l'innocenza», e aggiunto, «Serena ha bisogno di giustizia, ma anche noi, che siamo innocenti, reclamiamo forte la nostra estraneità ai fatti».
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Il Messaggero