Era probabilmente il dibattito più atteso degli ultimi decenni. E passerà alla storia come uno dei momenti più bassi della storia politica americana. Biden e...
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Dal confronto di martedì sera, tuttavia, c'è ben poco da imparare. Certo, non si può essere sorpresi: il processo di delegittimazione delle istituzioni e degli avversari politici viene da lontano, ed è ormai strutturale in molti sistemi politici, in primis quello americano. La classe politica e l'elettorato, inoltre, sono sempre più polarizzati e radicalizzati. Tuttavia, i dibattiti erano rimasti, anche nell'America arrabbiata di Trump, un'espressione della solennità della politica: martedì sera, questa tradizionale sacralità è stata rotta.
Per il presidente è stato un altro modo per rompere gli schemi e le regole della vecchia politica contro cui si è spesso simbolicamente scagliato; per Biden, che invece dell'establishment è un alfiere, è stata una prima volta. Le ragioni di questa rottura vanno proprio rintracciate nei simboli: di distanza dai riti e dai canoni politici per Trump, di forza per Biden, che alzando i toni ha voluto mostrare una vivacità più volte messa in dubbio.
È difficile invece trovare ragioni elettorali nella scelta di una strategia così aggressiva. Trump, in netto svantaggio anche nei principali Stati in bilico, avrebbe avuto la necessità di allargare il proprio elettorato oltre il recinto, numeroso ma non maggioritario, dei suoi supporter.
Biden, dal canto suo, è meno abile e reattivo di Trump quando i toni si alzano, e accettando di trasformare un dibattito elettorale in una lotta nel fango ha inseguito il presidente su un terreno nel quale rischia di perdere credibilità, vista anche la sua linea di messaggio sul «riunire un'America divisa».
I sondaggi successivi al dibattito hanno dato ragione allo sfidante democratico, ma è difficile vedere un vincitore in un confronto simile. La vera sfida, ora, sarà ricostruire un terreno condiviso a partire dalle fondamenta della democrazia statunitense: un obiettivo complesso, a giudicare dal clima che si è respirato durante quei novanta minuti. Viene alla mente un momento di un dibattito di dodici anni fa, quando il senatore John McCain si lasciò sfuggire un quello là nel descrivere il proprio avversario, Barack Obama. Fu coperto di critiche e commenti indignati. Lo stesso John McCain, la notte del voto, chiamò il neoeletto Obama, per congratularsi con il nuovo presidente «del Paese che entrambi amiamo», e pochi minuti dopo fermò con sdegno i fischi rivolti al suo avversario dalla platea repubblicana. Sembrano davvero passati decenni. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero