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Guai a seguire il modello Torino. E giammai l’università di Roma e altri atenei grandi e piccoli del nostro Paese, anche quelli più tormentati dal conformismo furioso del Free Palestine che si traduce in odio ideologico contro Israele, si mettano a seguire il cattivo esempio delle autorità accademiche della capitale piemontese. Dove, per una recrudescenza di terzomondismo dei docenti (ah, i cattivi maestri!) e per la loro ansia modaiola nell’inseguire i dettami politici della minoranza rumorosa e minacciosa degli studenti che hanno deciso che il Bene è nella Gaza in cui comanda Hamas e il Male è nella Tel Aviv in cui vige pur nelle sue imperfezioni la democrazia, si è voluta interrompere ogni collaborazione accademica con le università dello Stato vittima del massacro del 7 ottobre.
Una censura preoccupante e che non sta scatenando tutta la critica che dovrebbe suscitare. Si finisce infatti per schiacciare a torto, con questo tipo di metodo, la cultura di Israele, che oltretutto a livello universitario, scientifico e letterario è strapiena di voci dissonanti rispetto all’esecutivo Netanyahu, sulle scelte governative e si nega alla radice il principio dell’autonomia del sapere rispetto al potere, che è un cardine delle civiltà libere.
Le università dovrebbero svolgere proprio il ruolo opposto a quello che ha adottato l’ateneo di Torino e che rischia di essere contagioso. Ovvero dovrebbero sempre di più aprirsi, incuriosirsi, fungere da calamita e da spugna rispetto a ciò che accade nelle realtà del mondo che su certe materie sono all’avanguardia. Rompere il dialogo con le sapienze e con le competenze di Israele significa voltare la schiena anche a quanto sul piano della ricerca tecnologica e industriale Israele può darci. Basti dire, solo per fare un esempio tra i tanti, che quello è il Paese leader mondiale nei macchinari che purificano l’acqua del mare mettendola a disposizione dello sviluppo idrico nell’agricoltura e in altri ambiti della vita economica e quotidiana dei cittadini. Rinunciare, sotto il gioco auto-imposto dei pregiudizi ideologici, a una fonte così preziosa di conoscenze? Censurare il bisogno di imparare, di dare e di avere a livello di saperi e di saperi applicati, perché quello di Tel Aviv sarebbe uno Stato canaglia che oltretutto non è?
Il paradosso è che si stracciano gli accordi con le università israeliane mentre restano in vigore, a Torino ma anche altrove, quelli con gli atenei in Paesi dominati dal fondamentalismo islamico.
Insomma fa bene la ministra Bernini a dire, lo ha fatto ieri incontrando i rettori, che «l’università include e non boicotta». Così dovrebbe essere. E invece non è. La prima reazione alla strage del 7 ottobre è stata, a La Sapienza, il corteo degli studenti (pochi ma i più visibili, anzi purtroppo gli unici) che intimavano al rettore di bloccare ogni rapporto scientifico con gli israeliani. Ed è questo, fino allo sproposito messo in scena a Torino, il mood generalizzato nei nostri luoghi di studio. In cui i dogmi del radicalismo più estremo cercano di dettare legge. Secondo il mantra - da Roma a Napoli, da Genova a Siena, da Bologna a Cagliari - del «dagli al sionista» e della colpevolizzazione, secondo i collettivi studenteschi e un certo numero di intellettuali e professori italiani, per lo spargimento di sangue in corso in Medio Oriente con il relativo corollario di accuse di «genocidio» anti-palestinese (stando a un rapporto dell’Istituto Cattaneo, il 46,3 per cento degli studenti delle università Milano-Bicocca, Bologna e Padova, ritengono valida l’equazione «ebrei uguale nazisti»). Queste le motivazioni che hanno mosso i circa 4000 accademici italiani che, a novembre scorso, firmarono l’appello per il cessate il fuoco a Gaza e per interrompere i rapporti di collaborazione, da sempre molto prolifici, tra gli atenei italiani e quelli israeliani.
È sconcertante che pulsioni di questo tipo provengano dalle università, che dovrebbero ispirarsi non soltanto al rigore dello studio e della ricerca, ma anche al pluralismo che è la quintessenza della cultura. Si sta invece manifestando lo spirito di crociata e accade proprio nei luoghi teoricamente dediti alla pratica della laicità e all’uso della ragione. Ed è impressionante che sia presa di mira una delle realtà più straordinarie dello Stato ebraico, quel mondo universitario in cui l’autorità è contestata e le leadership di domani si formano liberamente. E in cui studenti israeliani e palestinesi condividono esperienze e spazi di studio. C’è inoltre da considerare, da parte nostra, che il prestigio degli atenei israeliani è ormai indiscusso. L’Università ebraica, quella di Tel Aviv e il Technion, si piazzano da anni ai primi dieci posti nelle classifiche internazionali delle istituzioni scientifiche. Nell’ultimo decennio cinque israeliani hanno vinto il Nobel. E la percentuale di pubblicazioni scientifiche è almeno dieci volte superiore a quella di altri Paesi. Lo scenario, soprattutto visto dall’Italia, è quello di un sistema di educazione proiettato verso le sfide del futuro. Quelle economiche anzitutto, se si considera che, secondo alcune stime, il 41 per cento del Pil di Israele è legato ai progressi sul fronte della ricerca e dello sviluppo e il 29 per cento a una maggiore istruzione superiore della popolazione. Sbattere le porte in faccia, in nome degli slogan e delle pose sessantottarde fuori tempo massimo, a una realtà così dinamica significa per noi non solo provincialismo ma auto-lesionismo nazionale.
Il Messaggero