Società e governance/ Il pericolo di un manager che risponde solo a se stesso

Società e governance/ Il pericolo di un manager che risponde solo a se stesso
Il capitalismo mondiale è una costruzione sociale molto differenziata. Più di quanto non si immagini. Ma la distinzione più importante è tra le...

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Il capitalismo mondiale è una costruzione sociale molto differenziata. Più di quanto non si immagini. Ma la distinzione più importante è tra le società per azioni che reggono e sostanziano il sistema; più precisamente, tra le imprese governate secondo la cosiddetta civil law di derivazione romano-giustinianea e quelle governate invece secondo la common law che configura la corporation come personalità giuridica cui è affidata la responsabilità, anziché agli amministratori.


Nelle società quotate esiste una netta separazione tra proprietà e gestione, sono perciò intuibili le ragioni che inducono a limitare il potere affidato al management. Un potere che risiede nella cosiddetta legge dell’oligarchia formulata agli inizi del secolo scorso dal giurista e storico Gaetano Mosca, secondo cui una minoranza organizzata sempre finisce per dominare una maggioranza non organizzata, soprattutto laddove esistono divieti eretti - come nel caso dell’ordinamento italiano a proposito delle società quotate - per assicurare il massimo della trasparenza verso il mercato.


Tra le innumerevoli contaminazioni culturali che ha prodotto la globalizzazione, nel governo dell’impresa vi è la sovrapposizione di molti strumenti della common law a quelli della civil law.
Sicché vediamo per esempio gli audit committee, i comitati di revisione, sedere accanto ai collegi sindacali che sono propri della civil law. Il fine di questa commistione resta lodevole: si è voluto in tal modo rimuovere ogni ostacolo alla trasparenza, dotando la società di tutti gli strumenti e i filtri necessari per prevenire anomalie nei vari livelli di comando, limitando al massimo l’insorgere di conflitti d’interesse.


Il punto è che a forza di fortificare l’obiettivo della trasparenza, si sono avallate costruzioni giuridiche che rischiano di svuotare il ruolo dell’azionista, accordando al manager un potere tale che è poi difficile smontare. Ciò è accaduto soprattutto in anni recenti, che hanno visto non poche società quotate dotarsi di statuti che prevedono la possibilità per il cda uscente di formulare una propria lista di candidati al rinnovo del consiglio. Un fatto che, se gestito con criterio, può essere positivo, ma che non manca di suscitare perplessità fra chi ne sottolinea i rischi di autoreferenzialità e di conseguente opacità della governance societaria.


Qui non è in discussione il principio della tutela delle minoranze o il diritto della maggioranza azionaria di avere una rappresentanza adeguata nel cda; come bene ha spiegato Giuseppe Vegas, il predecessore di Paolo Savona alla guida della Consob (che a sua volta è stato un pioniere in materia di moderna governance), il punto è evitare che il meccanismo di confezione delle liste, unito al sistema di votazione a lista bloccata, possa portare ad una sorta di cooptazione, tale da creare una situazione autoreferenziale a vantaggio esclusivo del management: una circostanza che fatalmente finisce per alimentare spaccature con gli azionisti di riferimento, a scapito naturalmente del bene aziendale.
Anch’io ho esercitato per anni l’attività di consigliere indipendente e ho presieduto importanti audit committee. Non me ne pento. Di una cosa però mi dolgo: di non aver a suo tempo riletto con maggiore attenzione Gaetano Mosca e la sua teoria del dominio oligarchico, invisibile e potente. 


Avrei probabilmente valutato diversamente lo snaturamento del voto di lista in certe situazioni e condiviso l’atteggiamento restrittivo della Consob che ha sempre ritenuto che la lista del cda non possa essere proposta all’assemblea in presenza di soci stabili o di controllo. Questa modalità, mentre da una parte rende opachi gli assetti di governo cristallizzati in un pericoloso gioco di specchi, dall’altra non consente il fisiologico avvicendamento del management, con l’evidente rischio di “cattura” degli amministratori da parte di chi ha un ruolo rilevante nella composizione della lista. 


Creando, in definitiva, quella situazione di autoreferenzialità e autoprotezione a vantaggio di un solo manager che perciò diviene potentissimo, con pericoli oggettivi per la società che così si avvia più facilmente al declino.

 

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Il Messaggero