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Il Pd si può ancora definire un partito riformista? Nel partito di Elly Schlein circola ormai con insistenza tale decisiva domanda. Essa cova da tempo nelle file di quel partito (fin dalla elezione della nuova segretaria) ma è deflagrata negli ultimi giorni quando la Schlein ha dichiarato di aderire al referendum della Cgil per abolire il Jobs Act. Si sa che l’archiviazione dell’esperienza di Matteo Renzi fa parte della “nouvelle vague” dei dirigenti dem: ma perché schierarsi apertamente contro uno dei pochi fiori all’occhiello del riformismo di sinistra che ha reso più moderno il nostro mercato del lavoro? Non ci si accorge che, così facendo, non si condanna alla “damnatio memoriae” solo Renzi ma anche ogni strategia modernizzatrice del sistema?
Purtroppo non si tratta solo di un episodio. Che il riformismo rischi di essere riposto in soffitta lo dimostra anche la postura assunta dal Pd di fronte alla tre grandi riforme proposte dal governo: il premierato, la riforma della giustizia e l’autonomia differenziata. In tutti questi casi è stato elevato un cartello di intransigenti “no”. Peccato però che essi siano contraddittorii rispetto alla stessa storia del Pd. Ad esempio: si può legittimamente contestare l’elezione diretta del premier, ma non si può dimenticare che nella sua storia, anche recente, il Pd non ha mai negato l’esigenza di una riforma dell’assetto del governo, persino arrivando nel ’97, con D’Alema, a un passo dall’approvare il semipresidenzialismo alla francese.
Identico il discorso sulla riforma della giustizia.
Mettendo insieme tutti questi atteggiamenti non è certo fuori luogo chiedersi se il Pd di Schlein non stia disegnando una nuova identità: non già quella di un soggetto riformista ma di un partito difensore dello statu quo. Per essere più precisi: un partito conservatore sulle questioni istituzionali e sociali e libertario sui temi dei diritti civili. E’ davvero questo il futuro che Schlein vuole per il suo partito?
C’è da sperare che non sia così. Anche perché, in questo caso, l’Italia si troverebbe di fronte a una non felice contingenza. Da una parte avremmo una maggioranza determinata sulla strada delle riforme senza però offrire alcuna garanzia che esse arrivino davvero in porto. Anzi, sono già evidenti incertezze e divisioni che Giorgia Meloni farà fatica a contenere. Dall’altra avremmo un’opposizione che, tra Pd e 5stelle, ha già creato un campo largo di pregiudizi e pulsioni conservatrici, abbandonando del tutto la strada del riformismo. Non sarebbe un bel film.
Tutto ciò richiama una riflessione più generale. Il risultato elettorale ha messo il sistema Italia di fronte a un esame di maturità. Ha mostrato che si può fare a meno degli esecutivi tecnici, ed è certamente un bene esser tornati a governi scelti direttamente dal voto popolare. A una condizione però: che, pur non rinunciando alle legittime contrapposizioni, tutti i partiti dimostrino di mettere al primo posto il bene comune degli italiani e la necessaria modernizzazione del sistema. Il che significa anteporre il dialogo al muro contro muro, la ricerca di ciò che può unire di fronte all’evidenza di ciò che divide. Per ora, invece, su tutti temi, accade l’opposto: ogni giorno si alzano nuove barricate. Anche per questo sarebbe veramente un danno, non solo per la sinistra ma per tutto il Paese, se il Pd rinunciasse ad essere un partito riformista.
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Il Messaggero