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Nell’imminenza della discussione, e della probabile approvazione, della riforma Cartabia, l’Associazione Nazionale Magistrati ha minacciato lo sciopero. Ormai è un riflesso quasi pavloviano. Il sindacato delle toghe, tanto più conservatore quanto più si proclama progressista, ripudia ogni modifica dell’ordinamento giudiziario, recitando la petulante litania dell’indipendenza della magistratura, della cultura della legalità e del monopolio oracolare dell’esegesi della Costituzione. Lo ha fatto anche con la timida riforma del ministro Castelli nel 2006, quando ha evocato favori alla mafia, ai pedofili e ai trafficanti di droga. La lettura odierna di quelle irritate geremiadi è estremamente istruttiva, anche perché, come avevamo previsto, quella riforma non cambiò nulla.
Ora l’Anm ripete la recita nel suo momento peggiore: lo scandalo Palamara e le indagini sulla Procura simbolo di Mani Pulite ne hanno compromesso la credibilità in modo irrimediabile, e probabilmente uno sciopero le sarebbe fatale. Peccato, perché la Magistratura non si merita questo epilogo inglorioso. Le ragioni per le quali lo sciopero sarebbe una follia sono due: una ragion pura e una ragion pratica. La prima è evidente: un magistrato, in quanto percettore di un reddito e di una pensione è, sotto questo profilo, un qualsiasi impiegato statale, e quindi può benissimo scioperare se vengono vulnerati i suoi diritti di lavoratore. Tuttavia, in quanto rivestito della toga, rappresenta il terzo potere dello Stato: il suo dovere è di applicare le leggi, non di opporvisi con l’arma dell’ostruzionismo o dell’astensione.
La giustizia penale ha aggredito gli amministratori locali, i quali, paralizzati dalla cosiddetta “paura della firma”, hanno adottato una timida condotta difensiva, cioè l’inerzia e talvolta il prudenziale diniego di provvedimenti essenziali. La giustizia civile, con la sua lentezza, ha incentivato gli inadempimenti contrattuali dei fornitori e degli acquirenti. Nei convegni degli imprenditori le lamentele cambiano: ora sull’approvvigionamento di materie prime, ora sulla conflittualità sindacale, ora sull’invadenza della burocrazia, ora sull’oppressione tributaria, ecc. Una sola rimane costante: quella sulla inefficienza e inaffidabilità della nostra giustizia, che compromette lo sviluppo e contribuisce alla stagnazione e al declino. Se in questo quadro già desolante si inserisse lo sciopero dei magistrati, il nostro sistema complessivo - già vulnerato dalle ripetute crisi finanziarie, dall’epidemia e dalla guerra - subirebbe un colpo ulteriore. Non diciamo che sarebbe fatale, perché le risorse del Paese sono molteplici, se non proprio inesauribili. Ma costituirebbe un messaggio calamitoso verso i cittadini e lo stesso governo, che con tutti i suoi limiti sta facendo miracoli per tenere in piedi questa vacillante impalcatura.
Gli italiani non solo non lo capirebbero, ma ne resterebbero disgustati. Con la consueta combinazione di timore riverenziale e di diffidenza ostile che nutrono verso l’Autorità, essi considerano la magistratura una corporazione favorita. Non è così, perché il lavoro della stragrande maggioranza delle toghe è maggiore rispetto alla media europea, e la loro retribuzione è in linea con quella dei colleghi. Ma questa è la percezione soggettiva dei cittadini, perché l’arroganza di alcuni pm e l’irresponsabilità per errori anche gravi hanno creato il mito di una casta intoccabile, che reagisce a colpi di inchieste, spesso infondate, quando si toccano i suoi privilegi. E il ricorso allo sciopero, tipico strumento di lotte sindacali, ne minerebbe l’ultima parvenza di imparziale neutralità.
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Il Messaggero