Parlamento agitato / Il controllo ideale sull’azione di governo

Parlamento agitato / Il controllo ideale sull’azione di governo
È una vecchia storia, sarebbe nota se qualcuno leggesse ancora di storia. Ci riferiamo alla diatriba sul rapporto tra governo e parlamento e alla richiesta, in questi...

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È una vecchia storia, sarebbe nota se qualcuno leggesse ancora di storia. Ci riferiamo alla diatriba sul rapporto tra governo e parlamento e alla richiesta, in questi giorni riproposta con spregiudicatezza, che il governo discuta sempre col parlamento le sue mosse negoziandole con l’assemblea. Giusto per il gusto della citazione strana, ricordiamo che sul punto ci fu un memorabile scontro fra Francesco Crispi (definito il “dittatore della Camera”) e i moderati liberali della Federazione Cavour fra 1887 e 1891 (i curiosi si leggano i lavori di Fulvio Cammarano).


La faccenda è sempre la stessa, si è dibattuta per 150 anni almeno e non solo in Italia. Il governo deve godere della fiducia del parlamento, d’accordo, ma questo significa che poi ha un mandato ad agire senza tornare a confrontarsi con esso? La risposta di prammatica è: certo che no, perché il parlamento può sempre ritirare la fiducia al governo e così mantiene il suo potere supremo di controllo. Limpidissimo sulla carta, più complicato nella realtà, perché spesso far cadere l’esecutivo ha costi che i rappresentanti del popolo non vogliono pagare: significa aprire crisi di governo, che possono sconvolgere gli equilibri, avere ricadute sugli equilibri sociali ed economici, nei casi più complicati possono portare allo scioglimento della legislatura col rinvio alle urne (roba che alla maggior parte dei parlamentari piace poco…).
Il lettore vedrà facilmente in filigrana quel che sta accadendo in questi giorni. I parlamentari vorrebbero, alcuni con maggiore radicalismo, altri con qualche moderazione, che Draghi si sottomettesse al rito di negoziare con loro concedendo qualche spazio di continua visibilità, tanto più che si va verso le elezioni per fine legislatura. Il premier, che affronta una partita difficile e in continua evoluzione su diversi fronti (internazionali, economici, sociali e sanitari), non può dirigere la politica agendo come chi deve chiedere ogni volta autorizzazioni preventive alla sua maggioranza.
Ci si chiederà perché normalmente questo modo di funzionare dei sistemi costituzionali non assuma aspetti così controversi. La ragione è semplice. In molti Paesi il governo ormai quasi di regola è frutto del risultato elettorale, cioè è guidato da chi ha ricevuto il consenso dalle urne assieme alla sua maggioranza, per cui il “controllo” parlamentare si esplica su un piano di parità: tanto il premier quanto gli altri eletti hanno un mandato popolare e dunque c’è per il governo un previo mandato fiduciario dalle urne che non può essere limitato, ma solo annullato eventualmente dalla sfiducia delle Camere (il che, in genere, comporta una nuova verifica elettorale).
Nella nostra situazione attuale non siamo però in presenza di una situazione “normale”. Le elezioni non hanno fatto vincere né una maggioranza, né hanno incoronato un candidato premier. Infatti né Conte, né Draghi sono, come avrebbe detto Max Weber, dominatori del conflitto elettorale. L’attuale maggioranza su cui si regge il governo è una specie di coalizione di emergenza, di alleanza di salvezza nazionale (più o meno presunta), la quale non ha alternative dentro le Camere. Aprire una crisi di governo significherebbe non solo affrontare l’incognita dello scioglimento della legislatura con elezioni da tenersi in un clima di fibrillazioni e sfarinamento delle coordinate politiche, ma fare i conti con alcuni mesi in attesa dell’esplicazione delle diverse procedure, mesi con un governo di transizione certo non nelle condizioni necessarie per affrontare la attuale congiuntura interna ed internazionale.
Come hanno rilevato tutti i commentatori, questo rende estremamente rischioso l’avventurismo del ricorso alla sfiducia verso il governo in carica, mentre spinge alcuni partiti a giocare quella partita sul piano extra parlamentare, sfidando di continuo il premier nel marasma dei talk show (direttamente o per opera di sostenitori esterni) e puntualmente votandogli la fiducia quando messi alle strette nelle Aule. Così però non si rafforza Draghi e la sua squadra, vuoi perché a sua volta è costretto a non poter ricorrere alla prova della crisi di governo e dunque qualche compromesso non sempre ottimo finisce per farlo passare, vuoi perché lo si manda a gestire situazioni complicate di fronte ad interlocutori che hanno assistito alle tensioni del quadro politico.
Una volta di più sarebbe necessario che cessassero le intemerate fantasiose su presunti tradimenti del nostro sistema costituzionale. Le diatribe dei decenni passati sulla democrazia messa in stand by, su meccanismi costituzionali alterati, su istituzioni incapaci di funzionare a dovere non hanno portato a miglioramenti, ma sono solo serviti ad allargare la fascia di coloro che sono sfiduciati verso la partecipazione alla politica come testimonia il continuo incrementarsi dell’astensionismo elettorale. Di recente a complicare il quadro ci si sta mettendo la leggenda metropolitana di un pensiero unico dominante che discrimina ogni voce critica (dove non si sa, vista la loro strabordante presenza nei dibattiti in cui semmai sono poco presenti i rappresentanti del presunto pensiero dominante).

Il buon funzionamento del costituzionalismo democratico necessita di conoscenza delle sue regole e di fiducia in esse. Il controllo sull’azione di governo non si realizza con l’assemblearismo che premia le pulsioni ai personalismi e alle spettacolarizzazioni, ma con la costruzione di un comune sentire guidato dalla responsabilità nei confronti di un momento storico peculiare e non facile (che per questo va analizzato e capito, non certo banalizzato). Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero