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Una delle scene che forse meglio rende la personalità di Elisabetta II è lo sketch con l’orsetto Paddington per il Platinum jubilee. Con il suo cappello rosso e il montgomery blu, Paddington va a prendere il tè dalla regina e le chiede se gradisce «a ma’amalade sandwich», che «porta sempre con sé (nel cappello) in caso di emergenza». «Anche io - replica Elisabetta - il mio lo tengo qui». Ed estrae un panino alla marmellata d’arance dalla sua borsetta con il fermaglio.
Pochi mesi sono trascorsi da quel Giubileo. Eppure, in un attimo tutto è cambiato. “L’ultima regina” non c’è più. E porta nella tomba i frammenti di un Novecento che ancora formava di sé gli anni Duemila. Nessuno più di lei, infatti, ha attraversato da protagonista la Storia del Novecento. È riuscita a farsi garante delle tradizioni, a incarnare l’istituzione monarchica, e al tempo stesso ha saputo adeguarsi alla contemporaneità. Duttilità, ironia, capacità di comprendere i tempi - e sfruttarne le tecniche di comunicazione - senso del dovere, tempra. Questa è stata la sua cifra. “Il mondo di ieri”, certo, ma anche quello di oggi e di domani. Tutti dominati dall’alto con un sapiente, regale mix di empatia e distacco.
Pur non esercitando un ruolo politico, Elisabetta II ha influenzato la società, la politica, il governo.
Era solo una giovanissima principessa ereditaria quando, nel 1940, si rivolse ai futuri sudditi con un discorso che cominciava con “My sister and I”. Ha continuato poi per oltre ottant’anni. Per comprendere quanto ampio sia l’arco temporale, basti pensare a un dato. Winston Churchill, Primo ministro quando Elisabetta sale al trono nel ‘52, era nato nel 1874. Liz Truss, Primo ministro del Regno Unito dal 6 settembre, è nata nel 1975.
Elisabetta II è giunta al potere presto e quasi per caso, abbastanza impreparata. In questo ricorda l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, che nel Settecento era salita al trono poco più che ventenne.
E ricorda la regina Vittoria, che aveva esordito dicendo: «Farò bene», prendendo come mentori il duca di Wellington, Disraeli e Palmerston. Elisabetta II, invece, ha avuto Churchill. Poi ha fatto “bene” e da sola, muovendosi quasi sempre all’unisono con l’animus, il cuore della nazione. Con l’unica eccezione dei giorni della morte di Lady Diana.
La sua presenza è stata determinante per la Gran Bretagna e per tutto il Commonwealth, quel poliedrico e multietnico mosaico di ex colonie tenute insieme soprattutto da un mastice potentissimo. Ovvero l’inglese. Così come Roma aveva governato sul mondo con il latino e i codici, infatti, la Gran Bretagna nei secoli scorsi aveva “ruled” per mezzo della lingua, dell’istruzione, della cultura, con la formazione di un’élite nelle sue scuole e nelle sue università. Poi l’Impero è andato perduto.
E ora, senza The Queen, è più difficile trovare un collante che possa garantire non solo la tenuta di un Regno Unito già confuso dalla Brexit, dal covid e dalla crisi economica, ma anche la tenuta del Commonwealth. Bisognerà offrire ai vari Stati delle ragioni valide per continuare a farne parte. Più in generale, la stessa monarchia deve trovare nuove basi per reggere e nuove forme per rinnovarsi. Un duro compito che spetta a Carlo III, il cui carisma non è certo quello della madre.
Keep calm and carry on, «Mantenete la calma e andate avanti», era il motto ideato dal governo agli inizi della Seconda guerra mondiale. Forse, sarebbe adatto anche oggi.
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Il Messaggero