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Pandemia e guerra hanno riportato indietro l’orologio della storia e dell’economia. Siamo tornati al risiko tra le grandi potenze per la ricerca della supremazia mondiale e ai conflitti armati come ottant’anni fa. Sono stati introdotti divieti alle esportazioni ed importazioni di beni e valute. Abbiamo preso a guardare con sospetto gli effetti della globalizzazione e abbiamo preferito l’autarchia alla divisione internazionale del lavoro. Sono stati sequestrati beni di cittadini di Stati esteri esclusivamente in ragione della loro nazionalità. Sono questi i fenomeni più evidenti cui abbiamo assistito negli ultimi tempi. Ma c’è qualcosa di più profondo che sta emergendo. A dare la stura a questa nuova tendenza è stata l’Unione europea, che nel 2020 ha stanziato un fondo, denominato Next Generation Eu e che in Italia ha dato vita al Pnrr, del valore di 750 miliardi di euro, destinato al rilancio dell’economia del Vecchio Continente e alla sua modernizzazione. Da parte sua, il governo statunitense ha varato nell’agosto dello scorso anno un programma, l’Inflation Reduction Act (Ira), che se nelle proclamate intenzioni si poneva l’obiettivo di raffreddare l’inflazione, nei fatti stanziava 738 miliardi di dollari per sostenere direttamente l’industria americana e per affrontare la transizione ecologica. Contemporaneamente, l’accordo sul Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip), finalizzato alla creazione di una zona di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti, si va trascinando senza soluzione ormai da un decennio.
È forse giunto il momento di domandarsi se ciò che sta avvenendo nelle moderne democrazie occidentali non rappresenti uno scardinamento dei loro principi fondanti relativamente alle scelte di politica economica.
Orbene, se la ragione fondante dell’esistenza delle due fusioni di paesi originariamente indipendenti (o quanto meno distinti), come è accaduto prima agli Stati Uniti e poi all’Unione Europea, è l’aver dato corpo, unici esempi nel mondo, alla costruzione di un sistema politico finalizzato a garantire democrazia e libertà, anche la semplice “sospensione” della fondamentale declinazione economica della libertà, rischia di produrre una sorta di tradimento. Ove ciò fosse, ne deriverebbe la potenziale perdita di attrattività nei confronti dei loro cittadini dei sistemi di tradizione democratico-occidentale. Il tutto si potrebbe tradurre in un indesiderato assist per le mire egemoniche, e non solo sotto il profilo culturale e politico, dei regimi totalitari.
Ben si può comprendere che, alle strette, la cassetta di pronto soccorso a disposizione dei governi, preoccupati di non perdere nell’immediato il consenso della popolazione, contenga solo balsami e lenimenti che attenuano il dolore, epperò non curano la malattia. La prossima, immancabile e sempiterna scadenza elettorale, poi, non può che distogliere l’attenzione dalle scelte coerenti con i principi. Scelte certamente più difficili da spiegare e che probabilmente non portano ad un ritorno immediato in termini di consenso, ma che sono le sole a garantire la stabilità nel tempo del sistema economico e sociale che ha finora consentito lo sviluppo e il benessere nel quale desideriamo continuare a vivere. Il corollario di un approccio di questo tipo comporta la necessità di accettare il fatto che lavoro e capitali si possano spostare dove sono meglio remunerati. Ed eventualmente contrastare il fenomeno indesiderato non con divieti o grida manzoniane, immancabilmente destinati ad essere ignorati o disattesi, ma con rimedi concreti.
Sorge, di conseguenza, la domanda se i rimedi in questione siano esclusivamente a disposizione degli apparati pubblici o possano invece essere forniti anche dal mercato. Lo Stato può intervenire con finanziamenti ed incentivi, ma, quando è stata applicata, la politica degli incentivi ha prodotto solo benefici temporanei. Non a caso il suo scopo è di favorire interessi settoriali, di comparti produttivi o di categorie di soggetti. Con la inevitabile conseguenza di trascurare il bene comune. Certamente lo Stato può e deve creare le condizioni infrastrutturali, e soprattutto culturali, per lo sviluppo. Ma è solo il mercato il soggetto che può trovare il giusto mix tra i fattori produttivi per affrontare le sfide che ci attendono. E soprattutto, come ci ricorda Adam Smith, per consentire, attraverso il soddisfacimento dell’interesse di ciascuno, la soddisfazione delle aspirazioni di tutti.
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