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In Italia si rischia l’introduzione di un principio che è stato argutamente definito (da Giovanni Moro) lo “ius domicilii”: cioè il diritto di chi vive nelle regioni più ricche del Nord di avere per legge maggiori diritti di chi abita nel Centro-Sud. Questo principio può concretizzarsi grazie all’autonomia regionale differenziata. Lo prova il disegno di legge per la sua attuazione che il ministro Roberto Calderoli illustrerà stamani alla Conferenza delle Regioni. È un testo estremo, il più favorevole possibile alle richieste regionali. Un testo che annulla tre anni di discussioni e confronti e riporta alla situazione del 2019 quando la ministra Stefani, anch’ella leghista, provò senza successo la stessa strada. Ricordiamo che non si discute di principi ma di sostanza: Lombardia, Veneto e in larga misura Emilia-Romagna hanno avanzato estesissime richieste, tali da trasformare radicalmente il volto del paese e le modalità di attuazione di fondamentali politiche pubbliche, a partire da istruzione e sanità; le prime due puntando esplicitamente ad ottenere le maggiori risorse finanziarie possibile.
Che propone il testo Calderoli? In primo luogo, disegna un percorso tutto in discesa, con un ruolo simbolico del Parlamento, chiamato solo ad un parere non vincolante da produrre in un mese e poi ad una ratifica a scatola chiusa.
Concentra tutto l’effettivo potere di quantificare e disporre di competenze e risorse nelle mani di una “Commissione Paritetica” di esperti, nominati dallo stesso ministro e dai presidenti delle Regioni. Un processo che renderà il tutto opaco, fuori dallo sguardo di parlamentari e cittadini. E che è irreversibile, dato che l’intesa Stato-Regione può essere modificata solo con il consenso di entrambi.
In secondo luogo, nulla dice sulle materie da trasferire, ritenendo opportuno che le Regioni chiedano tutte le competenze teoricamente possibili ai sensi della Costituzione. Si ricordi che le Regioni hanno diritto di chiedere, ma il Governo il potere di valutare se, quanto e come concedere, a difesa di tutti i cittadini e dell’unità nazionale. La proposta veneta (testo approvato dal Consiglio Regionale il 15.11.2017) ha bisogno di ben 58 articoli solo per elencarle, andando dalla regionalizzazione delle scuole e dei docenti, alla frammentazione della cassa integrazione fino ai “limiti allo scarico degli impianti che recapitano nella Laguna di Venezia”. Un catalogo che somiglia da vicino ai poteri di uno stato nazionale.
In terzo luogo, cerca il più possibile di venire incontro alla storica richiesta di Lombardia e Veneto di ottenere molte più risorse finanziarie di quelle che oggi lo Stato spende nei loro territori.
Il testo Calderoli invece propone di fissare i Lep (che attendiamo da 21 anni) entro un anno; ma, se non vi si riesce – e saranno molti gli interessi a non farlo - di procedere lo stesso; garantendo alle Regioni ciò di cui esse già si giovano (“la spesa storica”), ma soprattutto lasciando nelle mani di quella Commissione di cui si è detto, il potere di determinare “le risorse finanziarie ed umane necessarie all’esercizio delle funzioni”. Rischiamo dunque la “secessione dei ricchi”: la nascita di regioni con estesissimi poteri e capacità di spesa superiori alle altre.
Vedremo che sorte avrà il testo. Per coerenza il primo a contestarla dovrebbe essere il presidente emiliano Stefano Bonaccini, che il 26 ottobre scorso ha dichiarato che i Lep, il coinvolgimento del Parlamento, l’esclusione di scuola e sanità e l’idea che “nessuno tolga niente a nessuno” erano paletti irrinunciabili. È prevedibile che già oggi sia contestato dalle regioni del Centro-Sud, indipendentemente dallo schieramento politico, i cui cittadini tutto hanno da perdere.
Vedremo poi come evolverà il dibattito politico. Da un lato c’è il Pd ancora incapace di “prendere partito” su una questione così rilevante. Dall’altro, in posizione ben più importante, Fratelli d’Italia. Il presidente Meloni è stato finora assai cauto, forse memore della sua proposta di legge di riforma costituzionale (XVII Legislatura, n. 1953) nella quale, lamentando “una costante frantumazione delle attuali autonomie funzionali” proponeva l’abolizione proprio dell’articolo 116 della Costituzione per sopprimere “ogni forma di specialità regionale”.
Una cosa è certa. Cambiamenti così radicali riguardano aspetti essenziali della vita di tutti noi; di chi abita nelle regioni che chiedono la differenziazione (per i quali non è affatto garantito, come hanno plasticamente mostrato le vicende della pandemia, che la gestione regionale sia garanzia di migliori servizi) e di chi vive nelle altre regioni: che rischierebbe, con lo “ius domicilii”, di essere un Italiano a minori diritti.
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Il Messaggero