La storia/ La forza della poesia che apre il cuore dei ragazzi

La storia/ La forza della poesia che apre il cuore dei ragazzi
Matteo (che ha un bellissimo cognome ma non posso scriverlo in quanto è un mio studente) non aveva mai letto Sylvia Plath. Cioè, probabilmente non aveva quasi mai...

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Matteo (che ha un bellissimo cognome ma non posso scriverlo in quanto è un mio studente) non aveva mai letto Sylvia Plath. Cioè, probabilmente non aveva quasi mai letto una poesia. Intendo una poesia in senso generico. Poi la scorsa settimana ho assegnato per casa una ricerca sulla Plath per le ultime interrogazioni dell’anno e siccome Matteo non naviga nella sufficienza, è andato a casa e si è messo davvero a fare la dannata ricerca. 

Il giorno dopo mi è venuto vicino a distanza insolita, tipo bambino della scuola elementare con la maestra buona. E siccome lui è un motociclista (diciamo di professione) con diversi strati di muscoli, il chiodo e decisamente i suoi 17 anni, mentre io palesemente non sono la maestra buona, la cosa già mi sapeva di memorabile confessione. «Che c’è?» ho detto. «Che mi devi dire?» (Perché non è che noi, nella mia scuola nella profonda periferia di Roma, parliamo come gli altri insegnanti, che io me li immagino gentili, con le dita incrociate sulla cattedra e l’agenda aperta. No, noi siamo duri e crudi e abbiamo un certo gergo misto al romano per farci capire. Poi un giorno ve lo spiego meglio). Insomma, Matteo mi doveva dire una cosa importante, ossia che la prima poesia che ha trovato della Plath cercando su internet era quella per il padre. E che anche il suo di padre non c’è più, perché una sera è andato a cena fuori con gli amici, ha mangiato una cosa che non doveva mangiare, è entrato in ospedale e non è più uscito.

Almeno questo sa. E che la Plath ha scritto proprio quello che voleva scrivere lui da sette anni, da sette anni voleva scriverla quella roba là, ossia da quando il padre era uscito a cena fuori con gli amici, aveva mangiato una cosa che non doveva mangiare, era entrato in ospedale e non era più uscito. E poi me l’ha fatta leggere la poesia della Plath, perché se non conoscevo quella poesia là, allora la Plath non è vero che la conoscevo. E ho visto che l’aveva copiata sulle note del telefono e se l’era anche mandata per mail.

Non voleva perderla. E la poesia era stupenda e io non avevo alcuna voglia di piangere, ve lo giuro. Non è una scuola dove puoi permetterti il lusso di piangere la mia, nessuno ha abbastanza lacrime per un anno scolastico intero. Però ho pianto. Perché Matteo si meritava di starci più tempo con questo signore che ha mangiato la cosa sbagliata e forse si meritava di leggere più poesie. E di leggerle prima. Ma meglio tardi che mai. Allora gli ho detto che mi dispiaceva cavolo per il padre, che comunque tra quelle righe c’era ancora la sua anima perché sicuramente la Plath l’aveva scritta anche per loro due. Ed è questo che fa la poesia. E poi lui si è un po’ dispiaciuto perché non voleva intristirmi: «Già la facciamo tanto arrabbiare», ha aggiunto. Ed effettivamente la classe sua mi fa proprio arrabbiare, un giorno gli ho detto a tutti e 24 che mi stavano facendo pentire di aver scelto il mio lavoro, e che era meglio fossi restata a lavorare nel turismo o che mi fossi messa a scrivere soltanto. 

Perché in tutti gli anni di università e nei benedetti corsi di formazione nessuno mi ha mai detto che esistono classi così difficili come quella di Matteo a cui sembra sempre che stai facendo perdere tempo, perché loro hanno cose più urgenti a cui pensare della Storia o della Letteratura. O della Poesia. E allora ho preso Matteo e gli ho detto: «Ehi Matteo, senti, quando dico che mi fate proprio imbestialire e che voglio cambiare lavoro, non è vero. Adesso mettiti a posto che ti interrogo».

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Il Messaggero