Quando uno non vale uno/ Mancini, rinascere scegliendo gioventù e talento

Quando uno non vale uno/ Mancini, rinascere scegliendo gioventù e talento
Roberto Mancini non vale uno; non è mai stato come gli altri. Non omologabile. Un numero 10 - puro come Baggio e Maradona - capace di mettere talento e colpi di tacco...

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Roberto Mancini non vale uno; non è mai stato come gli altri. Non omologabile. Un numero 10 - puro come Baggio e Maradona - capace di mettere talento e colpi di tacco al servizio della squadra (i laziali ricordano quello di Parma, vero?), accettando di giocare (malino) da mediano perché era utile. Ora che s’è concluso il primo ciclo della sua conduzione da ct, Mancini riconsegna alla gente un’idea della Nazionale quanto mai unita, mai così spettacolare e tecnica nella scelta di giocate e giocatori, e molto giovane. Ed è vincente: 22 risultati utili di fila, record di vittorie consecutive e qualificazione alle finali di Nations League, giusto tre anni dopo il baratro dell’eliminazione dai mondiali firmata da Giampiero Ventura.


Il tecnico di allora allargava le braccia, l’Italia che mandava in campo era – secondo lui – quello che passava il convento: un movimento esangue. Arrivato al dramma di Italia-Svezia dopo due mondiali andati male e la rivoluzione abortita di Conte.


Mancini, da subito, non ha accettato la giustificazione: ha scelto l’ostacolo per saltarlo. E chiamato in causa gioventù e talento per farlo. Ventura era l’Italia (intesa come Paese) che si piange addosso, che gioca sull’alibi per negarsi le sfide e il futuro. Una dimensione di continuo presente che diventa zavorra, per una squadra e per un popolo. Mancini – ce lo rivela Costacurta che lo scelse per la Federazione contro molti – aveva visto anche in quella squadra squinternata e nel movimento italiano competenze e potenzialità. Fantasia e chance. E ha cominciato a costruire: lui Nicolò Zaniolo, il talento sfortunato della Roma, lo chiamò in azzurro quando in giallorosso non aveva debuttato in A. Ha costruito, come sempre gli è capitato di fare da quando – a Genova, sponda Sampdoria – ha assunto il ruolo di leader. Giusto, leader: è la parola che meglio lo descrive. Solitario; controcorrente come chi sceglie e riesce a vincere con Samp e Lazio, negandosi all’Inter, o - in Inghilterra - il City, quando a Manchester comandava lo United.


Roberto è uomo attento al bello (anche del proprio look) e alla scelta del momento in cui cedere il fioretto per passare alla clava. Nelle sue squadre ha sempre deciso i toni da indossare: quando serve la polemica, lui sa come farla deflagrare. Giocava o allenava la Lazio, ma il feeling con Totti non l’ha mai nascosto: Roma ha finito per amarlo lo stesso.
Attorno a sé, da sempre, sceglie gruppi di fedeli competenti. Un gruppo che, però, negli anni muta e si allarga. E non dimentica: bellissimo rivederlo insieme a Vialli. Quando erano i gemelli della Samp, Gianluca era quello frizzante e sotto i riflettori, ora in azzurro Vialli rinasce al calcio dopo il tumore come sparring partner. 


Viene in mente chi diceva – parlando di pubblica amministrazione – che senza una squadra di talenti solida non si può governare. Mancini governa così. Un leader al vertice, senza ostentazioni da caudillo, e tanti bravi intorno.


La lista di giocatori che in questo momento si ritrovano protagonisti con talenti spesso mortificati dai club è lunghissima: Bernardeschi alla Juve si sta perdendo, in azzurro rinasce. Insigne fa il leader come a Napoli capita di rado. A volte, raramente, sbaglia l’uscita: gli capitò con quel post simil-negazionista sul virus. Scuse immediate e una convalescenza da Covid che lo afferma come leader tanto carismatico da fargli guidare in smart working una Nazionale che gioca talmente bene e a memoria da far ritenere la sua una conduzione immanente.
Lo è, in realtà, lo è sempre stata. Nel gusto e nei gusti di Mancini si ritrova un bell’esempio di italiano diverso dai cliché recenti: ama il bello nel gioco, convinto che fosse riproducibile il suo modello estetico di calciatore uomo-assist nella pratica della contesa. L’opportunismo non è sempre stata cifra nazionale - nonostante quello che pensava Brera - e Roberto fa giocare un gruppo senza gruppi o blocchi (ci sono più giocatori del Sassuolo che della Juve talvolta in campo) con coralità sospetta: ma vuoi vedere che – effettivamente – dando fiducia al talento, anche gli egoismi possono essere archiviati?


Andrebbe blindato uno così, approfittando dell’orgoglio che mostra il ct per l’azzurro. Uno, Roberto Mancini, che non vale uno. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero