La politica e l’Ilva/ L’industria e il suo futuro sono appesi a una sentenza

La politica e l’Ilva/ L’industria e il suo futuro sono appesi a una sentenza
Investito dell’ennesimo ricorso sul funzionamento degli impianti dell’Ilva, il Tribunale del Riesame ha preso tempo, riservandosi di decidere entro il 7 Gennaio. Una...

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Investito dell’ennesimo ricorso sul funzionamento degli impianti dell’Ilva, il Tribunale del Riesame ha preso tempo, riservandosi di decidere entro il 7 Gennaio. Una scelta prevedibile vista la complessità della vicenda, la consistenza dei documenti, la competenza degli avvocati e, non ultima la posta in gioco. Una posta che coinvolge la prima industria italiana ed europea della produzione dell’acciaio, con decine di migliaia di posti di lavoro e una dimensione economica pari a uno o due punti di Pil. E una posta che viene attualmente giocata su vari tavoli giudiziari, perché il paradosso di questa odissea consiste in ciò: che se la fabbrica continua a produrre, espone i suoi dirigenti all’incriminazione di inquinamento ambientale; se invece chiude, espone le stesse persone al rischio di un processo per il reato di “distruzione di materie prime con danno per l’economia azionale”, ipotesi per la quale il pm di Taranto avrebbe già aperto, come si dice, un fascicolo. Né il conflitto finisce qui, perché un contenzioso civile è già stato radicato davanti al tribunale di Milano, dove la locale Procura è intervenuta nell’interesse collettivo e pare abbia, pure lei, iniziato a indagare. 


In questo inestricabile e metafisico garbuglio la prima e principale domanda che ogni persona di buon senso si pone è la seguente: dov’è la politica?

E purtroppo la risposta è sconsolante: la politica arranca in un perenne e confusionario andirivieni. Ricordiamo infatti che dopo aver affannosamente cercato un acquirente di quel gigantesco falansterio, il governo aveva promesso il cosiddetto scudo penale, cioè l’‘esenzione da responsabilità nel caso di continuità produttiva assistita da un congruo programma di riconversione. Promessa che poi lo stesso governo si è rimangiata, fornendo alla ArcelorMittal un eccellente pretesto per recedere dal contratto o condizionarne l’esecuzione a una serie di licenziamenti e di tagli. Anche ammesso che gli indiani nutrissero fin da principio una così callida intenzione, è evidente che solo un matto acquisterebbe un’azienda sapendo che se continua a lavorare viene incriminato per un reato, e se invece chiude viene incriminato per un altro. Perché questa è la nostra attuale politica.

Una politica che, perdendo vieppiù fiducia in se stessa, si affida progressivamente alla magistratura, con due conseguenze l’una più devastante dell’altra. La prima, che, abdicando al suo ruolo, essa tradisce l’elettore e si riduce a una sorta di teatrino grottesco, dove ciascuno recita una parte improvvisata in attesa della comparsa finale del deus ex machina, impersonato dal Giudice. La seconda, che questo ipotetico risolutore non è né unico né coerente perché, a causa dell’oscurità delle leggi e della discrezionalità di chi le applica, ogni situazione è aperta alle soluzioni più diverse e contraddittorie. Lo si vide negli anni settanta, quando il topless era consentito o vietato, nell’arco di un paio di chilometri, a seconda dei moralismi del pretore; negli anni ottanta, quando in una provincia si pagava il riscatto per la liberazione di un sequestrato, mentre in quella limitrofa i beni venivano bloccati dal pm con grave rischio della vita del rapito; e via via fino ad oggi, quando, a parità di condizioni, due diverse procure e due diversi tribunali dei ministri valutano in modo opposto l’operato del responsabile degli Interni sullo sbarco dei migranti.


Questa assenza penitente della politica risale agli anni di tangentopoli, quando i vari governi, parlamenti, e persino le Commissioni riformatrici, compresa la cosiddetta Bicamerale, manifestarono una sostanziale acquiescenza alle interferenze invasive delle toghe adeguandosi ai suggerimenti, o addirittura ai diktat, dei loro esponenti più rappresentativi. Allora questa abdicazione era stata occultata dietro la fraseologia ufficiale dell’ossequio all’indipendenza della magistratura, ma almeno aveva riguardato essenzialmente questioni processuali o ordinamentali. Ora, invece di subire un’offensiva giudiziaria, è proprio la politica ad invocarne l’intervento risolutore, per di più in materie vitali che dovrebbero essere di sua competenza esclusiva: dimostrando così di non saper dove andare, ma, quel che è peggio, di volerci andare convinta. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero