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La Pasqua è passata ma in molte conversazioni informali e riservate, familiari e conviviali di questi giorni di vacanza e anche nelle riflessioni di politici e vertici istituzionali - ogni tanto coincidono Paese reale e Paese legale - uno spazio preoccupato ha riguardato questo tema: ma davvero rischiamo di finire, o già ci siamo dentro, in una nuova guerra mondiale? No. Si. Boh. Incrociamo le dita. Di fatto la questione c’è, eccome. Perché tra missili che volano di qua e di là ai confini dell’Europa e l’ultimo ha appena distrutto l’ambasciata iraniana a Damasco come segno di una escalation tra Israele e Teheran, non è più tempo di bendarsi gli occhi.
Non è solo Ursula von der Leyen a pensare e dire: la guerra non è impossibile, l’Europa si armi. È un po’ per tutti, purtroppo, che la guerra non è più un concetto del passato e se i cittadini europei non la contemplavano più come un fatto concreto, adesso invece lo fanno.
Le parole dei pacifisti militanti e acritici sul cessate il fuoco e su eventuali accordi, spiragli, aperture, negoziati, in mancanza di soggetti veramente interessati a tutto ciò, sembrano afflosciarsi con il passare del tempo. E crescono le domande che prima non si facevano perché ci si illudeva che in fondo era tutto velocemente risolvibile. E se Putin attaccasse la Nato con delle testate nucleari, magari cominciando dalla Polonia che è assai impaurita? E se la jihad islamica, che resiste a Gaza e prospera altrove, puntasse su di noi?
La fine del Novecento, e della Guerra Fredda, aveva illuso sull’apertura di un nuovo mondo e sull’ascesa di un uomo nuovo – miraggio ricorrente - in cui l’inclinazione alla pace avrebbe prevalso sulla consuetudine della guerra, e anzi sarebbe sgorgata come un buon sentimento fuori dalla trappola della volontà di potenza. A farci ricredere, non sono bastate le guerre in Jugoslavia, cioè a due passi da noi ma ci si sforzava a pensarle lontane. E neppure è stata sufficiente la guerra in Libia, ossia praticamente in casa, con la cacciata di Gheddafi e con tutto quello che ne è seguito e ne sta seguendo. Un contesto di guerra vicino ma ritenuto remoto. Per non dire dell’Iraq e dell’Afghanistan.
Ora domande anche morali ci assediano e, con più o meno profondità, se le pongono tutti: accettare e affrontare la guerra, per fare la pace? Si vis pacem para bellum? Forse spendere il 2 per cento del Pil per la difesa (la Polonia per esempio spende il 4) non va considerato uno scandalo. E la difesa comune europea - non è solo il governo italiano a dirlo, ma anche gli altri e tutti gli esperti di sicurezza internazionale - non può essere rinviata o trattata come oggetto di chiacchiera ma deve diventare una priorità, non spezzettando più gli investimenti militari in 27 eserciti diversi. Ne sono convinti, secondo i sondaggi, la maggioranza degli italiani che in più ritengono, in maniera paritaria tra simpatizzanti della destra e della sinistra, che la difesa europea debba diventare il tema centrale della campagna per il voto di giugno. A questo proposito viene da chiedersi e da chiedere: perché non fare in Italia un patto tra i partiti in cui si garantisce che sull’esercito europeo - cioè sulla consapevolezza che la guerra esiste e che la pace non è più un diritto acquisito e inalienabile - si procede tutti insieme, senza smarcamenti e furberie propagandistiche di piccolo cabotaggio?
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Il Messaggero