La riconversione/ I controlli inefficaci sugli sforzi ecologisti

La riconversione/ I controlli inefficaci sugli sforzi ecologisti
“Perché le banche non salveranno il mondo”. È l’Economist nell’editoriale di questa settimana dal titolo “Usi e abusi della finanza...

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“Perché le banche non salveranno il mondo”. È l’Economist nell’editoriale di questa settimana dal titolo “Usi e abusi della finanza verde” a ridurre la portata degli annunci che hanno dominato la prima settimana della grande conferenza sul clima che si sta tenendo a Glasgow. Non c’è dubbio che annunci come quello fatto da Mark Carney – l’ex governatore della Banca d’Inghilterra che adesso guida l’“alleanza finanziaria globale per emissioni nette pari a zero” (Gfanz) – possono far pensare ad una forte accelerazione: secondo Carney controllano 130 mila miliardi di dollari le banche e i fondi d’investimento che si sono impegnate a eliminare qualsiasi prestito a imprese che inquinano entro il 2050. Iniziativa simile ma diversa è quella del ministro Cingolani che fa entrare l’Italia in una partnership pubblico-privata (vi partecipa il fondatore di Amazon, Jeff Bezos) con una dotazione iniziale di 10 miliardi e focalizzata sui Paesi in via di sviluppo. Tuttavia, l’impresa presenta non solo complessità realizzative enormi, ma anche il rischio di pericolosi effetti collaterali. 


L’ultimo rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (Iea) chiarisce che rispettare gli impegni sul cambiamento climatico del comunicato finale del G20 della settimana scorsa a Roma, significa investire circa 4.000 miliardi di dollari all’anno in energia a basso tasso di carbonio per i prossimi otto anni. 

È uno sforzo che necessita di un’imponente riallocazione di investimenti da attività più inquinanti ad altre che lo sono di meno e che può – da solo – valere una “missione” nuova che rivitalizzi istituzioni finanziarie che non sono mai completamente uscite dalla crisi che nel 2008 le tolse forza. Da qualche anno due organizzazioni non governative (il Gri e il Sasb) hanno prodotto un quadro metodologico per misurare quanto un’impresa sta creando o distruggendo valore ambientale e sociale: i cosiddetti indicatori Esg che agitano i progetti di multinazionali e fondi. Quasi tutte le aziende quotate hanno aderito alla metodologia, ma molti sono i dubbi che alcune abbiano trovato il modo per lavarvi responsabilità (il cosiddetto “greenwashing”). L’Unione Europea è, però, la prima organizzazione sovranazionale che, a partire da una proposta dello scorso anno, sta costruendo una vera e propria tassonomia che identifica attività economiche sostenibili e obbliga le banche a misurare – dal prossimo anno – quanto esse pesano sui finanziamenti erogati e le obbligazioni sottoscritte. Tuttavia, questo processo pone almeno tre grossi problemi concettuali che esigono un’innovazione che non può essere realizzata senza mettere insieme competenze e linguaggi completamente diversi.

Innanzitutto, c’è il problema di perimetrare cosa è un’attività economica (si può andare da un’azione di trivellazione fino all’invio di una posta elettronica) e stabilire se essa è sostenibile. Tale valutazione cambia radicalmente nel tempo in quanto l’innovazione tecnologica può rendere non inquinante una produzione che lo era – persino il cemento sta diventando verde – e nello spazio, perché imprese e Paesi diversi possono essere, più o meno, veloci nell’adottare l’innovazione. 

Ciò porta necessariamente a dover fare valutazioni molto più specifiche ad un certo soggetto economico di quanto non lo siano quelle che viaggiano con la vecchia e affidabile partita doppia (laddove recentemente anche valutare l’affidabilità finanziaria normale è diventato più complicato)

In secondo luogo, basare le valutazioni per “attività economiche” può portare (come dimostra il grafico che accompagna questo articolo) all’effetto di ridurre gli investimenti proprio nei settori che risultano a rischio più alto – tutti quelli energetici, ma, più in generale, quelli manifatturieri – che, però, di finanziamenti hanno maggiore bisogno per poter riorganizzare i propri processi produttivi. Infine, c’è la questione di allargare la valutazione ambientale per arrivare fino a quella della gestione interna di un’azienda, come la logica degli indicatori Esg richiede: ciò è utile per rafforzare la protezione di diritti umani già tutelati dalla legge, ma rischia – in formulazioni più ampie – di rendere la valutazione ancora più complessa e ridurre proprio l’autonomia di imprenditori che devono poter decidere per innovare. I tre problemi diventano, infine, ancora più grandi se si pensa che l’analisi va fatta da ogni banca per ciascuna delle imprese che finanzia, e da ogni impresa per ciascuno dei propri fornitori. E ovviamente a livello globale (per effetto di una direttiva che è, però, solo europea). Le due più grandi banche italiane potrebbero ritrovarsi a chiedere certificazioni complesse a tutte le imprese con più di cento addetti e i grandi produttori di energia a centinaia di fornitori sparsi tra Arabia Saudita e Nigeria. 

Una strategia alternativa è quella di ridurre la complessità e di perseguire un approccio che sia veloce ma graduale; rendere più conoscibili le regole alle imprese e i risultati delle valutazioni ai singoli risparmiatori ma anche ai consumatori che operano le scelte quotidiane che determineranno l’esito della battaglia che stiamo combattendo (riducendo la proliferazione di acronimi che rendono l’intera questione sempre più opaca e per specialisti). 

Una possibilità potrebbe essere quella di adottare gli strumenti di misurazione che già ci sono, proprio come fa la Banca Centrale Europea con i “rating” delle agenzie (Moody’s, S&P) come strumento per valutare la qualità degli attivi delle istituzioni finanziarie. Concentrandosi, però, su una “valutazione delle valutazioni” che coinvolga persino la società civile e spinga le società che fanno questo lavoro di analisi sofisticata a trovare soluzioni sempre più comprensibili e capaci di cogliere i progressi concreti delle imprese rispetto a obiettivi urgenti. 

Le regole sono fondamentali ma la loro efficacia è pari alla loro capacità di mobilitare comunità e persone in un progetto che non è solo fatto di finanza e che usa la finanza per ridarle visione e arrivare alla quotidianità di tutti.

www.thinktank.vision

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Il Messaggero