Erano due righe, sono diventate due parole. C’era un capitolo interamente dedicato, il punto 26, e ora non c’è più. Così Roma perde spazio, peso e...
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L’Urbe, insomma, come una qualsiasi città. Esattamente come la pensava Salvini - «Dare i soldi alla Capitale? Solo se li diamo anche a tutti gli altri» - al tempo della sua lotta nordista contro il SalvaRoma.
Non gli hanno fatto meritare neppure un punto specifico, ma appena un angoletto invisibile e vuoto di tutto. Questa la considerazione, minimizzante, anti-storica e contro-patriottica (senza la sua Capitale, l’Italia non c’è), che i nuovi governanti rivolgono al cuore dello Stato. Ostinandosi a degradare Roma a normale ente locale, a una semplice realtà metropolitana. Il che oltre a una beffa è un danno e il segno di un imperdonabile carenza politico-culturale. Ci vorrebbe Cavour a ricordare ancora una volta, ma evidentemente non basta mai, che «Roma è l’unica città italiana a poter vantare tradizioni non soltanto municipalistiche».
Nel passaggio da due righe a due parole, c’è un malcelato disegno politicista. Quello di due partiti che affrontano la questione di Roma non come se fosse una materia istituzionale o civica qual è. Ma in un’ottica di reciproca convenienza che è questa e che suona come un amaro paradosso da parte di chi oltretutto governa il Campidoglio (M5S) e la Regione (Pd): non mi giova insistere sulla valorizzazione di Roma, sennò al Nord i pochi voti che ho diminuiscono ancora. Ma è un ragionamento patriottico questo? Roma come un problema di tattica politica, legato al complessivo consenso su scala nazionale, è un tradimento immeritato e illogico.
E svilire questa città-nazione per paura dei sindaci settentrionali - Sala, l’Appendino e gli altri che hanno imposto lo scivolamento a piè di pagina della questione Capitale - vuol dire non capire né Roma né il Nord. Una politica che si rispetti dovrebbe essere capace allo stesso tempo di rafforzare la funzione della Capitale, con leggi ad hoc e con atti concreti, e di garantire il Settentrione e i suoi ceti produttivi coinvolgendoli in un disegno generale e non mandandoli all’opposizione. La «Politica come professione» la scrisse Max Weber, ma in giallo-rosso non è stata ancora tradotta. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero