Oltre il dolore/Il padre di Giulia e la lezione sulla speranza

Oltre il dolore/Il padre di Giulia e la lezione sulla speranza
Già sul finire della scorsa settimana qualche commentatore aveva colto il nodo di un deficit di speranza nel discorso del Censis sulla situazione sociale del paese....

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Già sul finire della scorsa settimana qualche commentatore aveva colto il nodo di un deficit di speranza nel discorso del Censis sulla situazione sociale del paese. Poi sono venute le parole del signor Gino Cecchettin al funerale di sua figlia Giulia, vittima di femminicidio. Con la forza e la lucidità di un dolore straziante e meditato Gino Cecchettin ci ha costretti a riconoscere l’estrema difficoltà ed insieme l’urgenza di tornare a sperare. «Voglio sperare insieme a te e alla mamma, voglio sperare insieme a Elena e Davide e voglio sperare insieme a tutti voi qui presenti: voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. E voglio sperare che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace».


Due segnali lontani indicano la stessa direzione. Due drammi diversissimi pongono lo stesso interrogativo.
Speranza: termine pressoché scomparso dal discorso pubblico. Tema e domanda che sale “dal basso” – espressione che questa volta sì, si impone –.


Il deficit di speranza nel quale ormai facciamo fatica anche solo a sopravvivere è cominciato con la dimenticanza del rango della questione. La questione della speranza è al centro del moderno. Il programma moderno, in una delle sue più classiche formulazioni, quella di Immanuel Kant, aveva al centro tre interrogativi: cosa posso sapere? Cosa debbo fare? In cosa mi è lecito sperare? Solo rispondendo alle tre domande, per Kant, si può rispondere a quella più importante, su chi sia l’essere umano.


Tanto elevato è il rango della speranza. Essa non è un problema privato e basta, e quando si riesce a farlo diventar tale, alla speranza ed alla modernità, quella dei diritti e della dignità delle persone, è già stato sferrato un colpo mortale.


Che poi il colpo lo sferrino i reazionari (tutti e solo rivolti al passato ed al desiderio di restaurarne i sistemi di dominio ed i regimi di disciplinamento sociale) o che il colpo mortale alla speranza lo sferrino invece i progressisti (che alla speranza illudono di poter sostituire il calcolo) poco cambia. La tenaglia che soffoca e decapita la speranza è scattata.


La invisibile, certissima e salda alleanza di reazionari e progressisti ha soffocato lo spazio, l’intervallo in cui solo può manifestarsi la questione su ciò che meriti di essere sperato e con tale questione la coscienza che della speranza non ci si possa mai disinteressare e meno che mai nella modernità.


Al cuore della modernità la speranza viene riconosciuta come questione pubblica. Viene riconosciuta come questione istituzionale. Tra le prime cose che si imparano nei corsi universitari di sociologia vi è che le istituzioni (ovvero ciò che diamo per scontato e che solo ci consente una vita sociale) sono fatte di un intreccio di conoscenze, norme e valori. Le istituzioni stanno in piedi sulla base di conoscenze, sulla base di una qualsiasi distinzione tra bene e male, e sulla base di speranze che orientano ad un futuro piuttosto che ad un altro. Non fanno eccezione le istituzioni economiche né quelle politiche, quelle scientifiche né quelle familiari, quelle religiose né quelle di alcun altro tipo. 


Cancellare la questione della speranza come questione pubblica serve solo, nel breve periodo, a far digerire egemonie e, nel medio-lungo periodo, a preparare crisi durissime.
Come si riporta al centro del dibattito pubblico la questione della speranza? Innanzitutto riconsegnandole il suo spazio vitale. Rimuovendo le macerie che lo ostruiscono: le macerie del mito di un passato che non è mai esistito e quelle di un futuro affidato al calcolo. 


Anche per chi crede, il signor Cecchettin ha pronunziato una sentenza contro la quale sarebbe ipocrita fare ricorso: «Io non so pregare, ma so sperare». Noi che preghiamo sappiamo ancora sperare? Sappiamo essere testimoni non di noi stessi, ma di una speranza anche nostra eppure altra da noi e credibile? Sappiamo tessere le istituzioni sociali anche di speranza (come sapemmo ancora negli anni ’40 e ’50) o siamo ormai distratti dai giochetti banali tanto di moda nei mille luna park religiosi? Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero