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Nel dibattito sulle sanzioni da attuare per indebolire Vladimir Putin il pacchetto energetico è all’ordine del giorno. Fatalmente, proprio la Germania, cioè il paese in Europa la cui economia è la più dipendente dalle forniture di Gazprom, ha preso la posizione più netta. Parlando il linguaggio semplice della verità. Il «no» alla messa al bando del gas russo è arrivato per bocca del premier Olaf Scholz - che guida da dicembre 2021 la cosiddetta coalizione “semaforo” per i diversi che la compongono - senza girare attorno al problema, sfoderando quel pragmatismo di cui spesso i tedeschi vengono accusati da chi lo scambia per cinismo.
La presa di posizione del governo tedesco, il cui ministero dell’economia e della protezione climatica è guidato dal leader dei Verdi Robert Habeck, era stata preceduta dalla posizione altrettanto netta della Confindustria tedesca, la Bundesverband der Deutschen Industrie, e dei sindacati: entrambe le associazioni, con un comunicato congiunto, avevano lanciato l’allarme sulla sopravvivenza della quarta economia del mondo: uno shock energetico innescherebbe fatalmente uno shock economico, e quindi una recessione, che avrebbe conseguenze anche dal punto di vista sociale. E le conseguenze sociali producono quasi sempre comportamenti irrazionali ed estremisti. Senza dimenticare il pericolo, sempre in agguato, di una spirale inflazionistica dei prezzi che a Berlino ricorda il tragico passato della Repubblica di Weimar.
L’uscita congiunta degli industriali tedeschi insieme ai sindacati non deve sorprendere perché dietro c’è un metodo politico, economico e sociale che risale agli Anni ‘50, quando fu fondata la mitbestimmung, cioè l’intesa imprenditori-sindacali. Questa “cogestione” delle fabbriche, dopo la fine della seconda guerra mondiale e del nazismo, ha permesso di strutturare un modello di capitalismo alternativo, seppure non antagonista, a quello americano: il modello Renano.
Non solo il cancelliere o l’asse Confindustria-sindacati ha preso una posizione netta, ma ha fatto sentire la sua voce anche la Bundesbank, che ha dichiarato, numeri alla mano, che senza il gas russo la Germania perderebbe 180 miliardi di euro.
Da Berlino torniamo in Italia, per vedere cosa succede a Roma. Anche da noi, come in Germania, avremmo tutte le ragioni per parlare il linguaggio della verità. Due soli esempi. Il primo: se per i tedeschi il blocco al gas russo porterebbe a una perdita di 180 miliardi, per noi in proporzione la stessa sarebbe dell’ordine di 100 miliardi. E sono sicuro che sbaglio è per difetto.
Il secondo riguarda l’Eni: leggendo l’ultima relazione finanziaria alla voce Global Gas & LNG Portfolio si scopre che le attività di vendita di gas e Gnl ammontano a 74 miliardi di metri cubi, dei quali 30 miliardi nel 2021 erano di provenienza russa. Cosa accadrà all’Eni nel caso che i paesi Ue decidano di procedere col bando totale e immediato del gas russo? Il colosso italiano vedrebbe ridurre il suo fatturato di circa 30 miliardi di metri cubi e, come conseguenza, dovrebbe trovare altri fornitori per fare fronte ai propri impegni contrattuali di trader, cosa che sta facendo ma con risultati proiettati negli anni a venire. Per non dire del pasticcio che ne nascerebbe avendo ancora legalmente in essere i contratti con Gazprom. A tal proposito sarebbe interessante conoscere quanto gas russo e per quanti anni ancora c’è nei contratti Eni-Gazprom.
Va bene quindi procedere nella ricerca di nuovi volumi di gas da altri fornitori che siano Algeria o Congo, ma al governo e al Parlamento va posta l’urgenza che si proceda anche con un programma nazionale, con iter su permessi di estrazione del nostro gas, per i rigassificatori navali, per i parchi eolici, per la cattura della CO2, calibrati sull’emergenza ma anche sulla prospettiva che non evaderemo dalla trappola energetica così presto.
Forse anche a noi farebbe comodo un po’ della sincerità brutale dei tedeschi. Ci permetterebbe di evitare un errore, anzi un azzardo: quello di limitarsi a scommettere sul fatto che tanto prima o poi la guerra finirà e tutto tornerà come prima. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero