Patria e degrado/“Arrivano i nostri” per il bene Capitale

Patria e degrado/“Arrivano i nostri” per il bene Capitale
Nel 1890, Francesco Crispi sosteneva che la nuova missione dell’Italia come potenza cominciava da Roma. E diceva che soltanto la consapevolezza della forza di Roma ci...

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Nel 1890, Francesco Crispi sosteneva che la nuova missione dell’Italia come potenza cominciava da Roma. E diceva che soltanto la consapevolezza della forza di Roma ci avrebbe consentito di «mostrare a tutti che noi non siamo minori dei padri nostri». Parole che valgono tuttora e dunque perché ostinarsi a depauperare Roma della sua funzione e del suo fascino, facendola precipitare dentro le sue buche? Tirarla fuori dalle nuove caverne è diventato una sorta di dovere patriottico, visto che ogni questione romana è questione nazionale. L’esercito, che è simbolo della patria e delle istituzioni, e la Capitale è di per sé una grande istituzione e un bene comune, va benissimo come pronto intervento, come soccorso bianco, rosso e verde per risollevare dalle sue voragini la città-guida del nostro Paese. 


Il termine esercito viene da exercitus, che in origine voleva dire esercizio (ossia il fare, e non soltanto il combattere) e ai tempi dell’antica Roma, ma non solo allora, i soldati erano anche ottimi tecnici, e alla loro attività, al loro esercizio, si devono molte meraviglie di ingegneria: le vie, gli acquedotti, i ponti e le piante di città. E così, nonostante le critiche politiche anche interne al governo che hanno cominciato a piovere e al netto della norma da riscrivere per vizi formali ma la sostanza non cambia, il fatto che la legge di bilancio preveda il coinvolgimento delle forze armate per rifare le strade di Roma non sembra affatto una cattiva idea. Ha qualcosa di naturale e di radicato nella storia. Ma soprattutto contiene un paio di segnali importanti. 

Il primo segnale è una bandiera bianca. Quella agitata dal Comune. E porta con sé una constatazione amara. Riguarda l’incapacità di gestione dell’ordinario - dello straordinario, per carità di patria, meglio non parlarne - da parte del Campidoglio. Il quale, chiedendo l’aiuto dei grillini al governo, ha di fatto reso pubblica la propria resa (io mi ritiro, fate voi) e ha ammesso platealmente il proprio deficit di capacità amministrativa. Un messaggio che va accolto con tristezza, un gettare la spugna e una rinuncia all’autorità che dovrebbe essere impensabile, ma ormai siamo abituati a tutto, per una classe dirigente che aspira ad essere riconosciuta come tale. 

L’altro segnale, stavolta positivo, è che l’esecutivo giallo-verde rende finalmente evidente, con questo intervento per Roma, che la Capitale non può essere trattata come una città normale, che deve prendersi il suo posto centrale anche nelle attenzioni e nelle priorità della politica nazionale al più alto livello. E questa è un tipo di sensibilità che ha fatto gravemente difetto ai governi degli scorsi anni. Schierare l’esercito nella vetrina della patria, per aggiustarla e farla smettere di riflettere degrado e depressione, immobilità e rischio quotidiano per i suoi cittadini di finire inghiottiti in qualche pozzo stradale, ha un significato non solo simbolico ma anche di rispetto e di tutela per chi vive nella Capitale e si sente deprivato del diritto alla sicurezza e alla mobilità. Cioè in qualche modo della propria libertà. 

I militari vengono mobilitati per le calamità, e destinarli alla cura delle buche di Roma vuol dire che un problema che sarebbe dovuto essere normale è lievitato e s’è incancrenito fino a diventare una grande emergenza. E come tale viene riconosciuto. Se ci fossero ancora i Monuments Men, quell’unità dell’esercito degli alleati adibita al recupero dei capolavori artistici durante la seconda guerra mondiale, potrebbero essere schierati anche loro, visto che Roma è l’incarnazione della bellezza in un contesto che sembra quasi bellico a giudicare dalle buche nell’asfalto anche se non sono cadute le bombe. 


Trattandosi di militari, c’è anche in questo intervento una funzione di peace keeping rispetto all’invivibilità quotidiana della Capitale. Che s’è trasformata, secondo ricorrenti immagini tragicomiche, in un grande buco con una città intorno. Esistono naturalmente responsabilità del Comune che vengono da prima, ma il rigettare la palla sempre all’indietro da parte di questa amministrazione è un gioco che poteva valere all’inizio e poi è diventato pura melina. Ossia, in termini non calcistici, irresponsabilità al potere. Ora i soldati dovranno mettere una toppa alle buche. E verrebbe da dire, ma in maniera amara e non esultante: arrivano i nostri!
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Il Messaggero