Un futuro difficile/La parabola del premier mediatore

Un futuro difficile/La parabola del premier mediatore
Quando le persone riservate e laconiche si esprimono, le loro parole pesano il doppio. È quello che deve aver pensato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte,...

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Quando le persone riservate e laconiche si esprimono, le loro parole pesano il doppio. È quello che deve aver pensato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, allorché ha letto le dichiarazioni di Giancarlo Giorgetti, che ne mettevano in dubbio l’imparzialità e anzi lo accusavano di parteggiare per i 5 Stelle. In una situazione consueta una tale discussione sembrerebbe surreale: un presidente del Consiglio “normale” è infatti sempre espressione di una parte, e nel caso specifico Conte era già stato presentato, prima del 4 marzo, come uno dei ministri che avrebbero preso parte a un governo Di Maio, se i 5 Stelle avessero raggiunto la maggioranza. 

Ma qui c’è poco di normale: non ci troviamo di fronte a un’alleanza ma a un “contratto” che prevedeva una sorta di terzietà del presidente del Consiglio. Che ora, a detta di uno dei due contraenti, sarebbe venuta meno, e a certificarlo non è più solo il vicepremier Matteo Salvini, ma lo stesso sottosegretario Giorgetti.


La fiducia tra il Carroccio e il premier sembra usurata, così usurata che se le elezioni europee certificassero non solo un ampio divario tra la Lega e i 5 Stelle ma eventualmente anche, a sorpresa, un piccolo divario, l’alleanza potrebbe persino continuare, ma senza più Conte. 
Un nuovo contratto, insomma, con un nuovo governo, talmente nuovo da prevedere che a guidarlo sia qualcun altro, magari una nuova figura di garanzia, ma più gradita dalla Lega? Uno scenario inedito per la Seconda repubblica ma non per la prima, quando democristiani e socialisti spesso cambiavano presidente del consiglio dopo un turno elettorale importante. 
Lasciando ai prossimi giorni, e agli elettori, la scelta, dobbiamo chiederci quando, come e perché Conte sia diventato sgradito alla Lega. 
Il quando. Per diversi mesi Conte è sembrato in grado di svolgere un ruolo di mediazione, anche se questo si tramutava spesso in assenza di posizioni o, in altri casi, in piccole frasi che traducevano l’intenzione di moderare Salvini, come disse nel gennaio a Davos - ripreso a sua insaputa - prendendo un caffè con Angela Merkel. La rottura è però avvenuta di recente, sul caso Siri, quando Conte ha sposato in toto la linea dettata da Di Maio.
Il come. In politica conta molto come si agisce, anche nelle sfumature. E sul caso Siri, il premier è sembrato appunto seguire la linea Di Maio che, ormai in campagna elettorale, e dovendo recuperare sulla Lega, decise di tramutare Salvini nel suo principale obiettivo polemico. Ma così facendo, agendo cioè di rimessa dietro a M5S, Conte sembrerebbe essersi bruciato le chances di poter ritornare indietro. Errore che invece è riuscito ad evitare in politica estera, grazie ad un tono più rotondo e istituzionale.

E ora veniamo al perché dello strappo. La ragione è molto più semplice di quanto possa sembrare a prima vista. Il punto è che l’arte della mediazione, già difficile per un politico consumato, lo diventa ancora di più per chi è approdato a Palazzo Chigi senza alcuna esperienza di politica e di governo. Insomma, una mediazione sarebbe riuscita a un Andreotti, o anche a una figura ormai dimenticata della vecchia Dc, come Mariano Rumor. Perché comunque è un’arte, che non si apprende nelle aule universitarie o sui libri. Si tratta di un delicato equilibrio di azione e inazione, di un contrappunto di parole e silenzio. Se prevale l’inazione, si rischia il galleggiamento ma se predomina l’azione, si finisce invece per irritare uno dei soggetti su cui si esercita la mediazione. 

Aggiungiamo che significativamente il casus belli si è verificato sulla giustizia; su quasi tutto si può trovare un punto di equilibrio ma sul garantismo, questione di principio, molto meno. Stiamo parlando di visioni del mondo contrapposte. La tempistica, poi, è stata infelice. Che prima o poi la magistratura facesse sentire la propria voce, Conte forse doveva prevederlo. E tracciare una linea tagliafuoco, prima che l’incendio divampasse. Non anticipando questa emergenza, che si è puntualmente verificata, il premier ha esaurito ogni margine di movimento restando prigioniero dello scontro tra i suoi vice.  Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero