Strana crisi, ma Pinochet è lontano

Strana crisi, ma Pinochet è lontano
Appena nomini il Cile, ti tirano fuori Pinochet. Che barba. Se pensiamo al Cile com’era quarant’anni fa, è...

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Appena nomini il Cile, ti tirano fuori Pinochet. Che barba.

Se pensiamo al Cile com’era quarant’anni fa, è perché siamo rimasti fermi là. Lui intanto correva veloce. E poiché le buone notizie non sono notizie, nessuno fiatava. Dopo trent’anni di democrazia stabile e plurale, di Stato piccolo ma efficiente, di mercato aperto e dinamico, i suoi indicatori socio – economici surclassano quelli di tutti i vicini. È vero: c’è troppa disuguaglianza. Ma è quasi meglio essere povero in Cile che ceto medio altrove. 

E le molotov, gli incendi, l’assalto alle stazioni? La repressione, lo stato d’emergenza? In uno dei Paesi più quieti al mondo? I più stupiti sono i cileni stessi: ovvio che in Cile come altrove vi siano disagi, mal di pancia, odi politici; ma nessuno pensa covi una massiccia protesta sociale. E chi protesta, lo fa come si suol fare in un Paese democratico: in modo pacifico, in strada o sui media, sui social o nel luogo di lavoro: così è stato anche in tal caso.

L’inferno scoppiato per l’aumento del biglietto della metropolitana non è sintomo di estesa «disperazione sociale». I poveri che stentano a sbarcare il lunario ci sono eccome, ma non sono certo quei ragazzi mascherati, violenti col gusto della violenza. Loro sono perlopiù studenti frustrati, «cercatori di assoluto» come i giovani più politicizzati son soliti essere: fanno in nome dei “poveri” ciò che ai “poveri” non verrebbe in mente di fare. Sono giovani redentori, insomma: in fondo sanno di vivere in un Paese libero e tollerante che non li punirà granché, e dove tanti troveranno loro mille giustificazioni. 

Dunque? Come spiegare il caos? Azzardo due spiegazioni, diverse e complementari. La prima: proprio perché il Cile «ce l’ha fatta» o quasi, i suoi conflitti sono, per modi e temi, simili a quelli dei Paesi più sviluppati. Non a caso si fa un gran parlare di “gilet gialli” cileni. Violenza e narcotraffico che appestano Messico e Colombia sono quasi inesistenti in Cile; corruzione e povertà che attanagliano Argentina e Brasile vi sono in confronto fenomeni marginali. E il Venezuela? Molti giovani radicali cileni difendono il chavismo, ma tra la vita quotidiana nel loro Paese e quella venezuelana c’è la fossa delle Marianne. 

Eppure proprio per questo il Paese appare a tanti ragazzi istruiti un mondo “piatto”, dove ci sono ingranaggi di un meccanismo fin troppo oliato; cercano “un’epica” che un normale Paese democratico e liberale non offre. 
Ma c’è anche un côté più “politico”. Il vento gira in fretta nella regione: Maduro rimane in sella in Venezuela e Ortega in Nicaragua: entrambi parevano col cappio al collo; il Messico è tornato all’antico alveo nazional popolare; è probabile faccia lo stesso l’Argentina per mano peronista; Evo Morales in Bolivia s’è messo la Costituzione in tasca e pregusta la rielezione, proprio come Rafael Correa ha soffiato sul fuoco in Ecuador e punta al ritorno trionfale. 
L’onda populista e antiliberale, ieri rifluita, torna oggi a montare. Brasile e Stati Uniti, suoi argini naturali, sono i meno credibili per affrontarla: come affidare le bandiere liberaldemocratiche a Bolsonaro e Trump? Nulla di strano, dunque, che l’onda lambisca il Cile. Non è la “vetrina” del “neoliberalismo”? Non ha un governo di “destra”? Che gusto, che impatto, rompere quella vetrina! Infatti siamo a qui a parlarne.


Come digerì pian piano l’apparente furia antisistemica del movimento studentesco alcuni anni fa, è probabile che il proverbiale conservatorismo cileno assorbirà anche questa. Ma le violente scene di questi giorni ci hanno ricordato ciò che avevamo quasi dimenticato: il Cile è America Latina; e da come ne parliamo, anche noi un po’ lo siamo.
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Il Messaggero