«Lasci questo Paese. L’Italia è un posto bello e destinato a morire. Che purtroppo neppure si può permettere di essere distrutto. Almeno saremmo tutti...
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In realtà sono gli stessi numeri raccolti dall'Istat che raccontano una storia del declino italiano molto diversa da quella che spesso sentiamo: con chiarezza essi indicano che l'Italia ha pagato il prezzo di tutte le sue crisi recenti, quasi solo bruciando l'energia delle generazioni più giovani e creando, dunque, i presupposti per far durare quel declino.
Il tasso di occupazione è, ad esempio, uno degli indicatori più importanti perché (a differenza di quello di disoccupazione che, in Italia, è addolcito dal numero crescente di individui che neppure cercano più un lavoro) dice molto bene quanto una società riesca ad includere.
Ebbene nel settembre del 2008, nelle stesse settimane che videro la Lehman Brothers - una delle banche d'affari che era stata il simbolo di un'epoca portare i libri in tribunale, la percentuale di giovani italiani tra i 25 e i 30 anni (negli anni che sono successivi alla Laurea) che erano occupati era del 65%: un livello decisamente superiore all'analogo tasso di occupazione per gli individui con un'età tra i 50 e i 60 anni che in quegli anni era al 59%. Bastarono cinque anni per rovesciare completamente la situazione: nel 2013, mentre si cercava di spegnere l'incendio dello spread e riformare le pensioni, il tasso di occupazione per i neo laureati risultava sceso di tredici punti percentuali (al 52%) rispetto al 2008, mentre continuava ad aumentare la domanda di lavoratori anziani arrivando fino al 65%.
Quella tendenza non si è fermata negli anni successivi. I giovani fanno sempre più fatica a trovare lavoro, a dare senso a lauree, dottorati; i più anziani sono sempre più richiesti, anche se costano di più e tutti dicono che stiamo vivendo una rivoluzione tecnologica. Ed infine, è arrivato lui: un virus che sembra aver scelto di piovere sul bagnato, di rendere ancora più evidente i paradossi che ci stanno strangolando.
Un paradosso perché sono i giovani ad essere molto più esposti a contratti di lavoro precari; molto meno presenti nei ranghi dell'amministrazione pubblica; molto più vulnerabili alla cassa integrazione, al licenziamento o a dover pagare per tutti. E però siamo tutti, non solo i giovani a rischiare di restare senza futuro. Perché senza lavoratori giovani, senza la creatività, la freschezza di chi non ha fatto in tempo a rassegnarsi, senza la voglia di rischiare e la flessibilità di chi ha ancora voglia di imparare, è un'intera società che si ferma senza più né idee, né soldi per garantire pensioni o ospedali.
Desta, allora, qualche sorpresa che il Governo, un Governo che è espressione di un Partito di maggioranza relativa che ha trovato nella delusione di milioni di giovani il proprio carburante elettorale, non sia stato ancora capace di raccontare questa terza crisi per quello che è. Di mettere la questione generazionale al centro dei propri decreti. Andava bene dare priorità a salvare il tessuto produttivo che esiste con i Decreti Liquidità e Rilancio. Ma ancora più urgente è, adesso, creare i presupposti per poterlo rinnovare profondamente quel tessuto. Utilizzando quelli che, oggi, hanno tra i venti e i quarant'anni (ma anche quelli più giovani rimasti a casa appesi ad una didattica a distanza) come l'unica, possibile riserva di una Repubblica a corto di prospettive.
Nel documento licenziato dalla task force Colao, i giovani sono citati solo da una delle 120 tavole esplicative. Ed invece per riuscire a ribaltare una storia che sta bruciando il futuro di un Paese dovremo mettere al centro dei prossimi Stati Generali tre decisioni ineludibili.
La prima è quella di ricostruire un Welfare e una previdenza che siano, davvero, universali e accessibili a tutti. Finanziandolo con l'eliminazione di privilegi che, in questo momento, sono riservati a chi ha un lavoro a tempo indeterminato (meglio se con un'amministrazione pubblica). La seconda è abbattere ovunque le barriere alla concorrenza; i monopoli che costringono a dimensioni insignificanti imprese giovani nate per cambiare mercati ed equilibri competitivi (le chiamiamo start up, ma le diecimila giovani imprese innovative che sono, oggi, registrate al Ministero dello Sviluppo Economico, non raggiungono tutte insieme le dimensioni di uno solo dei centinaia di unicorni imprese non quotate, il cui valore è di almeno un miliardo di dollari - che trainano e cambiano l'economia globale).
La terza è decidere, finalmente, di utilizzare l'imprevisto (e ultimo) treno che l'Unione Europea ci invita a prendere (le risorse del programma Next Generation Eu), quasi interamente per finanziare università, ricerca, innovazione, sanità, scuola. Le leve per concepire, finalmente, una strategia degna di questo nome.
In fondo, il professore di Patologia che cerca di scoraggiare il suo studente non è, oggi, più attuale almeno per un motivo: l'Italia, come diranno presto i dati Istat, è da ricostruire e non può più permettersi di rimanere aggrappata ai suoi dinosauri. Spetta ai giovani riprendersi un futuro che ci è scappato di mano.
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Il Messaggero