Dalla guerra tra le toghe una lezione per la politica

Dalla guerra tra le toghe una lezione per la politica
Le dimissioni, dopo la condanna in primo grado, di Edoardo Rixi, si possono interpretare in molti modi: un formale ossequio alla legalità, una generosa concessione di...

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Le dimissioni, dopo la condanna in primo grado, di Edoardo Rixi, si possono interpretare in molti modi: un formale ossequio alla legalità, una generosa concessione di Salvini agli annichiliti alleati, oppure, più semplicemente, la volontà di evitare un’altra estenuante polemica come quella che, per il caso Siri, ha fatto rischiare una crisi. Detto questo, rimane l’eterno problema: la strumentalizzazione della giustizia per l’estromissione degli avversari.

Questo problema, oggi opportunamente accantonato da Salvini accettando l’allontanamento del viceministro, è paradossalmente riemerso in termini assai più seri. Perché in questi giorni sono uscite, con grande clamore, le notizie di magistrati a loro volta inquisiti: un ex presidente dell’Anm, un membro del Csm e un Pm di Roma. La procura generale ha chiesto chiarimenti e il Csm ha aperto, come si dice, un fascicolo. Tutti hanno deplorato il sottostante gioco delle “correnti”, che starebbero lottando per accaparrarsi la poltrona vacante della Procura romana la quale, come si diceva una volta, vale da sola tre ministeri. 

Infine, i vari protagonisti hanno manifestato fiducia nell’esito delle indagini e auspicato una loro celere conclusione. I cittadini, allibiti, penseranno che queste litanie, già sentite dai politici, sono ora recitate dagli stessi magistrati. 
C’è una buona dose di ipocrisia in queste lamentele. Che il Csm sia infatti da sempre governato dalle “correnti” è circostanza così nota che non varrebbe nemmeno la pena di parlarne, anche se qualcosa, negli anni, è cambiato. Un tempo infatti la distinzione era facile: quella di sinistra, quella di centrosinistra e quella di centrodestra. 
Anche qui il cittadino si domandava, tra la perplessità e l’indignazione, cosa c’entrasse la politica con la giustizia. Ma l’Anm rispondeva imperterrita che le correnti costituivano un «arricchimento culturale nella dialettica democratica del diritto vivente in funzione costituzionalmente orientata», e altre amene espressioni tanto sapienziali ed epifaniche quanto prive di contenuto. In realtà era una pura questione di potere. Tuttavia la spartizione delle cariche apicali, pur eseguita secondo il manuale Cencelli, cadeva sempre (o quasi) su candidati intelligenti e integerrimi. 

Con il tramonto delle ideologie anche questa consuetudine è cambiata. Le correnti non si sono dissolte come i vecchi partiti, ma si sono progressivamente laicizzate, sfumando viepiù il connotato politico e privilegiando criteri più corporativi. Gli accordi, le alleanze e anche gli agguati sono oggi più complessi e indecifrabili, e spesso riflettono convergenze di magistrati di opposto orientamento ideologico. L’unica cosa che rimane è la spartizione finale secondo rigidi criteri correntizi.
Dov’è dunque la triste, odierna novità? La novità è che, in modo eclatante, la strumentalizzazione della Giustizia entra proprio nel cuore della Giustizia, cioè nei palazzi delle procure e dello stesso Csm. Quella perversione diabolica che fino a ieri gravava sui politici e sugli amministratori, costretti o invitati a “fare un passo di lato” una volta sotto inchiesta, oggi colpisce gli stessi magistrati, che sembrano, come Cesare ad Alesia, assedianti e assediati, investigatori e investigati, carnefici e vittime. 

Probabilmente il solito cittadino, che nei confronti delle toghe ha sempre nutrito un misto di diffidenza e di timore, perderà anche quella scarsa, residua fiducia, un tempo alimentata dai successi dei giudici sul terrorismo e sulla corruzione, e dalle loro numerose vittime cadute sul campo del dovere. Ma forse c’è un vantaggio in questa deplorevole “degringolade”. La politica, sulla quale ricade la colpa principale di una debolezza supina e di una rassegnazione codarda nei confronti della magistratura, può trarne esempio per riacquistare forza e dignità, riequilibrando i poteri secondo le regole minime della democrazia parlamentare. 

Le occasioni sono molteplici: dalla riforma dello stesso Csm, alla separazione delle carriere, alla più generale revisione del processo penale. Accettando le dimissioni di Rixi, Salvini ha dimostrato di non voler forzare. Ma ora bisogna cambiare la Giustizia, speriamo con risultati all’altezza del problema.
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Il Messaggero