I giovani del ‘99/ Cosa dicono quelle tende davanti alle università

I giovani del ‘99/ Cosa dicono quelle tende davanti alle università
Uno dei segni distintivi dell’invecchiamento di una persona è quello di cominciare a pensare di appartenere a una generazione che ha fatto molti più sacrifici...

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Uno dei segni distintivi dell’invecchiamento di una persona è quello di cominciare a pensare di appartenere a una generazione che ha fatto molti più sacrifici di quelle più giovani. È inutile negarlo: siamo stati considerati noi stessi generazioni di viziati dai nostri nonni e genitori, e lo stesso pensiamo noi dei ventenni attuali. 


Questa è infatti una delle prime reazioni che si ha quando, andando in università o leggendo i giornali, si vedono spuntare le colorate tende degli studenti che stanno protestando contro il caro affitti. Cominciamo dal paradosso: in un Paese caratterizzato (e indebolito) proprio dalla frammentazione e delocalizzazione delle sedi universitarie, tanto al nord quando al centro e al sud del Paese, non dovrebbe essere così difficile trovare una buona università in provincia. 
E non sempre, dunque, bisogna affrontare viaggi interminabili per raggiungere la sede delle lezioni. Ma, abbandonando i paradossi, il punto è comunque un altro: fosse anche necessario farsi quattro ore di viaggio tra andata e ritorno per seguire le lezioni universitarie, sarebbe davvero un sacrificio così grande? Evitare di mangiare fuori anche solo una volta al mese è così limitante? La risposta non può che essere negativa.
Innanzitutto, nella maggior parte dei casi, chi sta studiando deve già essere grato alla propria famiglia per il privilegio che gli sta mettendo a disposizione. 

Secondariamente, se guardiamo alle due ultime generazioni di “ragazzi del ‘99”, il confronto non lascia scampo: la più recente si lamenta per il lungo viaggio verso l’università, la precedente accettava, di malavoglia ma in silenzio, di lasciare gli affetti per recarsi al fronte. Con la differenza, aggravante, che agli attuali ventenni più della protesta interessa la condivisione social, alla ricerca magari di un po’ di visibilità, di uno spazio sui giornali o, nella migliore delle ipotesi, di una candidatura alle prossime elezioni tra le fila di qualche partito che dà ragione e voce a tutti pur di dar torto al governo di turno. 
Quanto sono rappresentative queste proteste? E quanto dureranno? Quanto resisteranno i ragazzi a dormire su scomodi materassini? O perché protestare solo con la bella stagione? E infine: stiamo crescendo una gioventù di smidollati? Ovviamente no. E, se si cerca un po’ di verità, è anche venuto il momento di cambiare registro.
Quelle elencate finora non sono semplici provocazioni. Ma rappresentano solamente uno dei due lati della medaglia. Ridursi a esse costituisce una lettura troppo povera e ingenerosa del fenomeno. Perché dietro a uno studente di vent’anni che protesta, per il clima, per la pace o più prosaicamente per gli affitti, c’è comunque la storia di un ragazzo o di una ragazza che vuole emanciparsi. Che sa di potersi anche fare quattro ore di viaggio al giorno, ma che allo stesso tempo non vuole continuare a pesare sulla propria famiglia. 
Un ragazzo o una ragazza che magari lavora anche per mantenersi e che deve pagarsi tutto (rette universitarie - più o meno elevate - vestiti, vitto e alloggio) e che vuole studiare in una determinata università perché la considera migliore di altre, perché anche se il titolo di studio ha valore legale, sa benissimo che non tutti i dipartimenti sono identici e che il mercato riconosce le differenze. 
Dietro queste proteste ci sono ragazzi e ragazze ambiziosi, nel significato più alto del termine, che vogliono chiedere di più a se stessi e alla propria formazione. Ci sono, infine, ragazzi e ragazze che non hanno mai ricevuto nulla dallo Stato, se non una mancia al compimento dei 18 anni, e che mentre sonnecchiano stremati dopo una giornata di studio, cullati dal movimento del vagone, o mentre spengono la frontale nella loro tenda, pensano a chi, in quello stesso Paese e in quella stessa città, in barba a tutti loro (e anche a noi), riceve un trattamento economico senza fare nulla, grazie a qualche amicizia con medici compiacenti o con funzionari disonesti. 
Questi giovani, che oggi lo Stato non valorizza, sanno che non riceveranno un trattamento migliore nemmeno domani. E se gli sforzi che stanno facendo ora verranno portati a termine, probabilmente leveranno sì le tende, ma stavolta in senso figurato. 


Porteranno le loro competenze altrove, dove il merito non viene demonizzato e dove le necessità economiche di chi si vuole emancipare non sono derise. Possiamo ridere di loro, oggi: a volte pure con ragione. Ma se domani non vorranno pagarci la pensione, sarà stata anche colpa nostra.

 

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Il Messaggero