Calabria, Muccino e lo spot con Raoul Bova che non racconta la voglia di futuro

«Non bastano i lampi per fare la marmellata di lamponi», scriveva Gianni Rodari celiando con le parole. Bene, non basta un regista con credenziali hollywoodiane...

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«Non bastano i lampi per fare la marmellata di lamponi», scriveva Gianni Rodari celiando con le parole. Bene, non basta un regista con credenziali hollywoodiane – al secolo Gabriele Muccino – per girare un buon video promozionale su una regione difficile e tormentata qual è la Calabria. Video che essendo costato 1,7 milioni di euro dovrebbe, quanto meno, essere efficace e convincente, cioè richiamare turisti e visitatori. Ma difficilmente accadrà.

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Sui social, da un paio di giorni, la polemica impazza. Muccino, per aver giocato coi colori pastello e raccontato una storia d’amore zuccherosa, è convinto di aver realizzato un filmato emozionale e toccante. I calabresi, infuriati dall’accumulo di banalità e luoghi comuni sul loro conto, la pensano diversamente. E si chiedono, ad esempio, a chi mai verrebbe in mente di fare un tour gastronomico in una regione dove, da quel che si vede in sei minuti, si possono mangiare solo clementine, bergamotti, arance e, se ti va bene, un fico?

Una freddura da scuole elementari, che da calabrese espatriato mi è toccato sentire più volte anche da persone adulte e mediamente acculturate, vuole che esista in Italia un posto eccentrico chiamato Calabria Saudita. Muccino forse non lo sa, ma col suo lavoro ha assecondato un trend dell’antropologia contemporanea che tende a ricercare l’esotismo non più nelle terre lontane, ma vicino a noi: l’Altro e lo Straniero comodamente visitabili in casa nostra. Laddove l’esotismo è per definizione l’arcaico, la natura ancora incontaminata, il buon selvaggio, i profumi della terra, il pre-moderno nel cuore della modernità, ciò che eravamo e che guardiamo con struggente nostalgia. Appunto la Calabria oleografica e francamente un po’ ridicola del filmato mucciniano, una regione che non ha conosciuto alcuno sviluppo (si vedesse una macchina, salvo quella dei due turisti, un centro urbano o una qualche attività economica che non sia quella agricola…) e dunque fatalmente senza futuro: asini che gironzolano per le strade d’un paesino lunare, giovani nullafacenti abbigliati con canottiera, bretelle e coppola, vecchi che giocano a carte all’ombra delle case, donne anziane al balcone, agrumeti per ogni dove e un mare verde smeraldo (ovviamente ritoccato al computer) che in Calabria semplicemente non s’è mai visto.

Tutto perfetto, tutto irreale. Quale turista andrebbe in un posto che non esiste o ricostruito a tavolino? L’idea (persino generosa) era evidentemente di esaltare le bellezze di una terra che si vuole rimasta ancora brutalmente selvaggia e che proprio per questo avrebbe un fascino unico. Ma quella che si ricava, finita la visione, è in realtà un’apologia, involontaria e penalizzante per l’intera Calabria, dell’arretratezza, spacciata per quieto vivere e solare lentezza: la felicità dei residenti e il diletto dei turisti dovrebbe derivare dal vivere e dal visitare un luogo che dal filmato sembra rimasto fuori dalla storia e dal tempo.

In sei minuti, molti dei quali occupati dalle risatine dei due piccioncini protagonisti e dai loro ammiccamenti amorosi, non si vede un monumento, una chiesa, un sito archeologico o un’opera d’arte (da Mattia Preti a Mimmo Rotella c’era di chi scegliere), non si vede cioè nulla che oltre la natura primordiale – sole rocce terra alberi mare cielo – richiami anche la cultura, cioè l’agire degli uomini e la loro creatività. Ancora uno sforzo e si sarebbe potuto convincere qualche pensionato tedesco a venire in vacanza in Calabria per incontrare gli indigeni che ancora vivono nelle grotte!

 

 

L’alternativa, per non apparire vittime degli stereotipi, quale sarebbe dunque stata? Far vedere gli scempi edilizi lungo le coste, ricordare che in Calabria esiste una cosa chiamata ‘ndrangheta, denunciare l’inesistenza in questa regione di una sanità pubblica decente? Ma allora non sarebbe stato uno spot pubblicitario, bensì un documentario di denuncia. Giusto, ma che promozione è quella che si affida ad una rappresentazione falsa, riduttiva, convenzionale e come tale al dunque non credibile e mistificante? Una rappresentazione peraltro tutta giocata, dal punto di vista narrativo, sulla nostalgia del ritorno e sullo scontatissimo cliché del migrante che ha lasciato il suo cuore nella terra d’origine. Qui siamo al sociologismo scolastico. Insomma, un’occasione sprecata, soldi buttati al vento, questo filmato che mette insieme, senza alcuna originalità, cose già viste e riviste: un po’ gli arcaismi culturali de “Il Padrino”, un po’ le pubblicità patinate di Dolce & Gabbana, un po’ la Julia Roberts inquieta di “Mangia, prega, ama”, un po’ i giovani amanti sempre impegnati a fare il bagno di “Laguna blu”. 


Beninteso, stereotipi e luoghi comuni hanno una loro verità e forza, e spesso hanno anche una proiezione universale positiva. Chi può offendersi se si abbina Napoli alla pizza, Milano al panettone o Parigi alla baguette portata sotto il braccio? Il problema è non fermarsi ad essi, non alimentarli oltre il lecito e non scambiarli per la vita reale. Credendo di fare bene Muccino li ha invece utilizzati tutti e a mani basse, traducendoli visivamente col suo stile patinato e mieloso, laddove forse avrebbe avuto più senso ironizzarci sopra (lunga vita a Cetto La Qualunque e alla Calabria volgare e grottesca che mette in scena). Ma quello che al dunque proprio non si può accettare in questo video, caro Muccino, caro Raoul Bova, è il finocchietto messo nella soppressata. Lo sa ogni bambino calabrese: quelle col finocchietto sono le salsicce. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero