Sulla carta sembra l'uovo di Colombo: lasciare nella busta paga dei lavoratori - in tutto o in parte - i versamenti del trattamento di fine rapporto, per rendere il netto un...
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Il primo problema lo ricorda una nota di Unimpresa. Il centro studi dell'associazione di categoria calcola che la proposta di destinare ai lavoratori il 50 per cento del Tfr “maturando” costerebbe alle piccole e medie imprese 5,5 miliardi in termini di minore liquidità disponibile. Le norme attuali prevedono infatti per i dipendenti la possibilità di destinare i versamenti della liquidazione al proprio di fondo di previdenza complementare; nel caso non vi sia il consenso dell'interessato per questo trasferimento i soldi restano in azienda oppure – se l'impresa ha più di 50 dipendenti – affluiscono a un fondo dello Stato presso l'Inps.
Ecco allora che su 23 miliardi di flussi annui del Tfr poco meno di 6 finiscono ai fondi complementari, mentre una cifra di poco viene dirottata all'Inps. Nelle casse delle piccole imprese restano circa 11 miliardi: soldi che appartengono ai lavoratori in quanto salario differito, ma che nel frattempo fanno comodo ai datori di lavoro soprattutto in tempi di crisi di liquidità. Perdendo la metà di questa somma, le aziende dovrebbero rinunciare appunto a 5,5 miliardi di liquidità.
Il governo dovrebbe quindi prevedere delle misure compensative. I problemi però non finiscono qui, perché la perdita ci sarebbe anche per lo stesso Stato, per i mancati versamenti al fondo. Inoltre andrebbe valutato con attenzione il trattamento fiscale, più oneroso in busta paga dove il Tfr sarebbe sottoposto all'aliquota marginale Irpef. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero