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Si chiamano contratti di espansione. Sono uno degli strumenti con i quali è possibile accedere ad un prepensionamento: non su base individuale ma in base a specifici accordi aziendali. È una norma sperimentale attualmente in vigore fino al 2023: la bozza di decreto Lavoro ne prevede la proroga fino al 2025 alle stesse condizioni, ovvero per le imprese con un minimo di 50 dipendenti. Potranno quindi essere avviate apposite consultazioni per arrivare alla stipula di questo tipo di intese. Concretamente, viene prolungata l’opportunità di lasciare il lavoro con un ulteriore anticipo fino a cinque anni, per i lavoratori che entro questo termine maturano il requisito per la pensione di vecchiaia o per quella anticipata (con 42 anni e 10 mesi di contributi oppure 41 e 10 mesi per le lavoratrici). A rigore la prestazione di cui usufruiscono queste persone non è un assegno pensionistico, ma un’indennità pagata dall’Inps a carico dello stesso datore di lavoro. L’obiettivo del contratto di espansione è favorire la riconversione produttiva e il ricambio generazionale; per questo è prevista l’assunzione di almeno un nuovo lavoratore per ogni tre che usufruiscono dello “scivolo”.
Prepensionamenti, gli oneri
Questa strada insomma è onerosa per le aziende, che hanno comunque una convenienza a intraprenderla in caso di significative ristrutturazioni.
La soglia
Va ricordato che l’istituto del contratto di espansione era stato concepito proprio per le grandi imprese, con la soglia dimensionale fissata a 1.000 lavoratori. Questo requisito è stato poi abbassato nel corso del tempo per estendere il numero dei potenziali interessati: prima a 500 dipendenti (o 250 in caso di accompagnamento alla pensione) poi a 100 da metà 2021 e infine a 50 dall’inizio dello scorso anno.
Il contratto di espansione si affianca ad un’altra forma di uscita anticipata nota come “isopensione”. Si tratta in entrambi i casi di opzioni a cui fanno ricorso soprattutto le grandi imprese, che hanno però alcune differenze. L’isopensione può coprire un massimo di sette anni (invece di cinque) ed inoltre prevede il versamento dei contributi a fronte dello stipendio teorico che il lavoratore avrebbe percepito; è quindi una soluzione più onerosa per l’azienda e più vantaggiosa per il lavoratore, che in questo modo vede incrementare l’importo a cui avrà diritto al momento del pensionamento definitivo. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero