Lo scenario si manifesterà in tutta la sua chiarezza nel 2045: alla metà di quel decennio, gli italiani di 65 anni e più saranno un terzo della...
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LE PROPOSTE DI LEGGE
Nella scorsa legislatura alla Camera dei Deputati erano state addirittura presentate due proposte di legge con l'obiettivo di inserire nella Costituzione il principio dell'equità intergenerazionale, aggiungendolo esplicitamente all'articolo 38 in cui si parla di previdenza e Stato sociale. I progetti non hanno fatto molta strada, e tuttavia possiedono una certa valenza simbolica.
Lo squilibrio attuale nasce naturalmente dalla demografia ma lo si può leggere facilmente anche nei dati sul lavoro. Il tasso di occupazione nella fascia di età che va dai 15 ai 39 anni è intorno al 48%, contro una media europea che si pone sopra al 62%. Il divario con il resto del Vecchio Continente esiste anche per i lavoratori più maturi, quelli che hanno tra 40 e 64 anni, ma è decisamente meno marcato (65% contro 72%). Il diverso destino delle generazioni appare però ancora più evidente se si guarda oltre che alla quantità alla qualità del lavoro. In Italia circa 2 milioni e 700 mila lavoratori dipendenti hanno un contratto a tempo determinato: oltre la metà di questi hanno meno di 35 anni. Nella fascia di età tra 15 e 34 anni i rapporti di lavoro a termine sono uno su due, in quella dai 35 ai 64 anni uno su dieci.
I CONTRATTI PRECARI
È una sproporzione che va ben al di là di un fisiologico percorso di ingresso nel mondo del lavoro: se si mettono nel conto anche le altre forme contrattuali atipiche al di fuori del lavoro dipendente si può tranquillamente concludere che i giovani si sono dovuti fare carico di una grandissima parte della flessibilità introdotta nel sistema da vent'anni a questa parte. Con conseguenze che si ripercuotono nei decenni futuri: le carriere lavorative discontinue di oggi, rischiano di diventare domani pensioni inadeguate, in un sistema contributivo (quello applicato in pieno a chi ha iniziato a lavorare dal 1996 in poi) che tra l'altro non prevede più le attuali forme di tutela come l'integrazione al minimo. Senza dimenticare che la precarietà incide anche sulle cosiddette decisioni riproduttive, riducendo le nascite e spostando in avanti l'età a cui si ha il primo figlio; in questo modo si alimenta il corto circuito demografico. In realtà l'idea che la fascia più debole della popolazione coincida sostanzialmente con quella di età avanzata, con i pensionati insomma, per quanto ancora diffusa è ampiamente messa in discussione dai numeri. Ad esempio quelli recenti della Banca d'Italia, che nell'«Indagine sui bilanci delle famiglie» confronta la situazione del 2016 con quella di dieci anni prima. L'incidenza degli individui a rischio di povertà è cresciuta dal 19,6 al 22,9%, ma con andamenti differenziati: l'incremento è di 7 punti per i nuclei con capofamiglia fino a 35 anni e di oltre 11 fra 35 e 45 anni. Per contro, l'incidenza si riduce di 4,5 punti per gli ultrasessantacinquenni e di oltre 3 punti per la categoria dei pensionati.
RIFORME LENTE
Ovviamente, non tutti gli anziani pensionati sono benestanti e molti anzi sono certamente bisognosi; ma in media la categoria usufruisce di assegni che via via negli anni sono aumentati di importo, perché chi lasciava il lavoro poteva sfruttare la stabilità dei decenni in cui il posto fisso era la regola. Inoltre l'uscita dal lavoro, prima che le varie riforme dispiegassero tutti i propri effetti (e in misura minore anche dopo) è avvenuta relativamente presto. Negli anni Novanta l'età effettiva alla decorrenza della pensione era di 57-58 anni, oggi siamo a 63 ma questo indicatore è destinato a crescere. Di conseguenza si ridurrà o quanto meno non crescerà l'arco di vita in cui si beneficia dell'assegno previdenziale. Il paradosso è che in questo scenario welfare e fisco invece di accorciare le distanze le ampliano: l'Istat calcola che l'intervento pubblico complessivo (imposte, contributi e trasferimenti) aumenta il rischio di povertà dei giovani, dal 19,7% al 25,3% per la fascia 15-24 anni e dal 17,9% al 20,2% per quella 25-34 anni: vuol dire che nel gioco della redistribuzione queste generazioni risultano perdenti, soprattutto in prospettiva, ricevendo meno di quello che danno. È vero che, come ha ricordato recentemente anche l'Ufficio parlamentare di Bilancio, esiste anche il welfare informale, l'aiuto dato in varie forme ai giovani dalle famiglie di provenienza, particolarmente significativo in Italia; ma, nota lo stesso Upb, «se nell'immediatezza dalla crisi questa caratteristica delle famiglie e del sistema socio-economico italiano è stata utile a tamponare i casi di sofferenza, essa costituisce anche un fattore di debolezza». Perché gravitare intorno ai genitori e al loro luogo di residenza può, ad esempio, limitare seriamente l'autonomia e la mobilità e quindi ridurre ulteriormente le possibilità di trovare un lavoro soddisfacente.
(1-continua) Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero