Non sono lavoratori, perché in effetti non hanno un’occupazione. Ma nemmeno disoccupati, perché non la cercano. Per l’Istat fanno parte delle...
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LA CATEGORIA
In Germania, ad esempio, ci sono poco più di un milione e 600 mila disoccupati (con un tasso molto più basso di quello italiano) e poco più di 500 mila persone che lavorerebbero ma non cercano. In Francia i primi sono quasi 2.800 mila, gli altri poco più di 700 mila. Nell’intera area dell’euro si contano poco più di 6 milioni di “rinunciatari” a fronte di quasi quindici milioni di disoccupati. A conti fatti dunque gli appartenenti a questa categoria che vivono nel nostro Paese (rappresentano circa la metà dell’intera platea dell’eurozona.
Da cosa dipende questa differenza? Per capirlo si può provare a partire da una cifra ancora più grande, gli oltre tredici milioni di italiani di età compresa tra i 15 e i 64 anni classificati tra gli inattivi. Dentro ci sono, naturalmente, quasi 4 milioni e mezzo di studenti o di persone comunque in formazione. E anche 2 milioni e mezzo di pensionati e altri che hanno rinunciato per motivi di età. Tutta gente per la quale la condizione di inattivo è naturale. Ma poi esistono anche altre ragioni che portano a rinunciare alla ricerca del lavoro: quelle familiari (sono quasi tutte donne, si presume mamme e casalinghe). E infine ci sono coloro che l’Istat inquadra, in senso tecnico, tra gli “scoraggiati”: persone che non cercano un lavoro semplicemente perché ritengono che non c siano possibilità di trovarlo. In tutto sono circa un milione e mezzo: molti di più che nel resto d’Europa.
GLI ECONOMISTI
In realtà questo fenomeno rientra con tutta probabilità in una caratteristica di fondo del nostro mercato del lavoro, la bassa partecipazione. In Italia gli inattivi rappresentavano nel 2017 il 34 per cento della popolazione tra i 15 e i 64 anni: una percentuale che nel corso degli anni della crisi e della successiva fragile ripresa si è ridotta (grazie soprattutto all’ingresso di una quota più ampia di donne) ma che resta ben al di sopra della media europea che è al 34. E da noi spicca anche quello che gli economisti del lavoro chiamano skill mismatch: persone che svolgono mansioni al di sopra oppure al di sotto delle proprie competenze: in tutto sono il 17 per cento dei lavoratori. Insomma far incontrare la domanda e l’offerta è difficile: e questo penalizza sia chi un lavoro ce l’ha, sia chi lo vorrebbe. E con loro, l’intero sistema produttivo. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero