Non c'è un motivo per cui l'Eni debba liberarsi di Saipem

Non c'è un motivo per cui l'Eni debba liberarsi di Saipem
Da più parti si sostiene che la ripresa economica è incominciata, anche accompagnando l’affermazione con cifre condivisibili: ed è indubbiamente una buona notizia. Però è...

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Da più parti si sostiene che la ripresa economica è incominciata, anche accompagnando l’affermazione con cifre condivisibili: ed è indubbiamente una buona notizia. Però è fondamentale sapere che, per il nostro Paese, questo primo passo, perché produca risultati soddisfacenti e duraturi, deve essere accompagnato da adeguate scelte strategiche.


Mi riferisco all’esigenza sempre attuale di avere una politica industriale di lungo respiro, che punti a sostenere lo sviluppo dei nostri settori di eccellenza e, all’interno di questi settori, delle imprese chiave. Per approfondire questo aspetto, mi servirò di un esempio che calza a pennello, quello di Saipem, una delle principali imprese italiane del settore energetico, che fa parte della galassia Eni.



Il punto di partenza è che Eni – sono parole pronunciate dal presidente Emma Marcegaglia – intende liberarsi delle attività estranee a quella della produzione ed estrazione di gas naturale e olio combustibile. In questo processo rientrerebbe anche il deconsolidamento della partecipazione di Eni in Saipem, favorendo l’arrivo di un socio industriale o finanziario. In questo modo Eni riuscirebbe a deconsolidare il debito Saipem. Ora, proprio questo è il punto: in un’ottica di politica industriale italiana – non dimentichiamo che Eni è un’impresa partecipata dallo Stato – non esiste nessun motivo ragionevole perché il colosso energetico nazionale si liberi di Saipem, a meno che il nuovo socio non sia lo Stato italiano. Non si tratta ovviamente di tornare alla non rimpianta politica delle partecipazioni statali, ma di investire per mantenere il controllo su un’azienda sana, che ha un capitale professionale e tecnologico di livello mondiale.



È tempo di costruire politiche industriali che non tengano conto solamente di parametri finanziari, ma anche del ruolo sociale di un’impresa. La vendita di un asset strategico nel momento di difficoltà ha senso solo se ci si mette dalla parte di un amministratore delegato o di un potente advisor a cui si chieda esclusivamente di migliorare la performance del titolo azionario in borsa in cambio di un significativo bonus. Teniamo conto che il valore delle azioni SAIPEM in questo momento – lo si afferma da più parti - è sottostimato e l’azienda ha bisogno di nuove risorse per sostenere investimenti e progetti. In Italia su questo punto siamo un po’ deboli, mentre altrove – in Francia ma anche nei ‘liberisti’ Stati Uniti – quando si tratta di mantenere in patria un’azienda strategica la si difende.



In sostanza, in un’ottica di impostare una politica che non solo agganci la ripresa ma la trasformi in uno sviluppo solido, se si è d’accordo che è strategica per il Paese – come accennato sopra – Saipem va mantenuta all’interno di Eni - quindi del sistema industriale italiano a partire dalla nostra invidiata impiantistica industriale strumentale. Cercherò di sostenere questa posizione con alcune osservazioni. Una domanda per cominciare: perché a ENI viene richiesto di migliorare la posizione finanziaria quando - in un momento in cui il costo del denaro è praticamente nullo - può sostenere un debito anche superiore a quello attuale? Se questa operazione proprio deve farsi, le risorse devono provenire da investitori istituzionali – come le indiscrezioni che circolano in queste ore riconducono, quali Cassa depositi e prestiti, Fondo strategico, fondi pensione - che hanno a disposizione una liquidità enorme, e potrebbero garantire a Saipem la sua indipendenza operativa, cosi come la posizione di leadership nel campo dei servizi all’industria di estrazione e una flessibilità imprenditoriale che le permetterebbe di essere un player di primo piano nel settore. Mantenendo il controllo in mano pubblica e riequilibrando la leva finanziaria con un aumento di capitale, Saipem potrebbe accedere a nuove risorse per sostenere gli investimenti per rinnovare la flotta dei mezzi navali e restare al passo con gli sviluppi tecnologici del settore. Gli investimenti di Saipem, considerata la dimensione dei progetti di cui si tratta, rappresenterebbero un’ulteriore opportunità per il sistema Paese: per le banche che saprebbero finalmente dove destinare la enorme liquidità accumulata grazie al Quantitative Easing della BCE e per il sistema manifatturiero italiano che potrebbe in questi investimenti trovare il volano tanto atteso della ripresa economica. Tutto questo richiede una sapiente regia pubblica che garantisca, nell’ambito di una visione di lungo periodo, gli interessi degli azionisti, pubblici e privati, cosi come del sistema produttivo del Paese, dove le commesse dovrebbero essere destinate, e soprattutto salvaguardi il ruolo sociale dell’impresa. Inoltre Eni potrebbe deconsolidare la sua partecipazione in Saipem, migliorando la propria posizione finanziaria e ottenendo consistente liquidità dalla vendita delle azioni, oltre a mantenere una presenza importante nella società e la possibilità di avere profitti dalla rivalutazione del capitale.



Per concludere, questo intervento intende essere semplicemente uno stimolo al dibattito: un’operazione su Saipem – o su altre aziende strategiche - deve essere portata avanti tenendo d’occhio non soltanto gli aspetti puramente finanziari ma anche i benefici che porterebbe la difesa di una Saipem ‘italiana’ anzi ‘Europea’. Perché se la compra un cinese o un russo non c’è dubbio alcuno che sposterebbe tecnologia, investimenti e persone da una altra parte del mondo. Questo perché Saipem non ha asset rilevanti in Italia - i suoi asset sono i mezzi navali che sono in giro per il mondo – mentre il suo vero patrimonio è il know how, che non ha limiti territoriali per essere utilizzato. Se questo dovesse succedere non ci sarebbe ragione per uno “straniero” di continuare a mantenere i centri di formazione a Piacenza , i cantieri di fabbricazione in Sardegna, le migliaia di giovani ingegneri a San Donato. E perderemmo un’eccellenza di valore mondiale.



*Consigliere regionale Emilia Romagna Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero