Cinema e tv, dare voce alla diversità con il primo corso di doppiaggio inclusivo

Netflix, la società di postproduzione 3Cycle e la Fondazione Diversity hanno lanciato a Roma la prima edizione del corso

Claudia Simonetti, la Dubbing Manager di Netflix Italia
Dare voce alla diversità, restituire verità alle tante sfumature della vita, far parlare la realtà senza tradirla. Ascolta: Da Stockhausen alla Scala con...

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Dare voce alla diversità, restituire verità alle tante sfumature della vita, far parlare la realtà senza tradirla.

Cercare parole  che non siano gabbie, evitando stereotipi e macchiette. Una nuova sfida per il cinema, la tv e tutta l’industria dell’audiovisivo. Una scommessa che parte dagli studi di 3Cycle, società di postproduzione e doppiaggio che ha sede a Roma, condivisa da Netflix e dalla Fondazione Diversity. È qui che ha preso il via la prima edizione del Corso in Recitazione e Scrittura applicate al doppiaggio che punta sui valori della Diversity&Inclusion. Una necessità nel mercato audiovisivo ormai senza più confini. Le produzioni da doppiare arrivano da tutto il mondo e raccontano tanti mondi. Come restare fedeli all’originale, nelle parole, nei significati, nelle voci e nelle emozioni?  Come rispettare le intenzioni di chi ha creato l'opera e le varie identità che rappresenta?

Il corso promosso da 3Cycle in collaborazione con Netflix e Diversity va in questa direzione, risponde a questa esigenza e traccia una nuova direzione nel doppiaggio. «Negli ultimi tempi la domanda di produzioni è aumentata ma abbiamo notato un leggero abbassamento della qualità», spiega Marco Guadagno, fondatore e direttore di 3Cycle. «Ci siamo resi conto che cominciavamo a pagare lo scotto della mancanza di formazione. Da qui l’idea di organizzare un corso di perfezionamento per formare nuovi talenti, aumentare il “parco” voci e dare l’opportunità a tutti di fare questo lavoro». La bella voce non basta più. «Il nostro obiettivo è quello di offrire la stessa varietà di storie e punti di vista che oggi vediamo rappresentati sullo schermo», aggiunge Claudia Simonetti, la Dubbing Manager di Netflix Italia, che ha sostenuto l’iniziativa con 18 borse di studio. «Inizialmente ne avevamo previste di meno, ma abbiamo aumentato il budget di fronte ai tanti talenti e alle tante storie che abbiamo incontrato. Dobbiamo aver presente che il doppiaggio e l’adattamento sono il tramite che consentono di usufruire di un contenuto che viene prodotto in altri Paesi. Abbiamo anche noi un dovere e una responsabilità nella creazione dell’immaginario collettivo. Il linguaggio è vivo e in continuo divenire, di conseguenza lo è il doppiaggio». Che voce dare, sullo schermo, a un ragazzo disabile? Come doppiare un’attrice transgender? Con la voce di uomo o con quella di una donna, tradendo in entrambi casi e con il rischio di violente forzature? Come evitare di restituire una realtà stereotipata? Come tradurre la parola “mansplaining”? Tutte domande a cui si prova a rispondere con il corso di doppiaggio inclusivo a cui hanno partecipato i primi 30 studenti, dai 20 ai 60 anni, con le storie più diverse.

L’ADATTAMENTO

Si comincia, nelle sale di 3Cycle, con la lezione di Elettra Caporello, dialoghista di gran parte dei film di Woody Allen. «Il nostro compito - spiega agli allievi - è rendere il testo di un’altra lingua adatto a un pubblico italiano, ricreare lo spirito dell’originale e nel caso di una commedia far ridere anche il nostro pubblico, questo è l’aspetto più difficile». Perché un termine è preferibile a un altro, «i dialoghi sullo schermo devono essere come parliamo, con parole ma che si comprendano», perché un’espressione, che sulla carta funziona nel parlato risulta fuori posto? È questo che insegna Caporello, tra le docenti del corso insieme a Gabriella Crafa, Gabe Negro, Espérance Hakuzwimana, Grace Fainelli, Marina Cuollo e interventi speciali come ad esempio quello della psicologa Francesca Cavallini («non parliamo di disturbi, ma di neurodiversità, il processo di normalizzazione ha creato disturbi che tali non sono»), e attori come Adriano Giannini. Tra i docenti del corso, anche: Marco Guadagno, Massimiliano Manfredi, Francesca Guadagno, Claudia Catani, Gabriella Scalise (per l'Estill Voice Training), Lorena Bertini, Gianluca Ferrato, Marco Benevento, Alessandro Quarta, Federico Zanandrea e Georgia Lepore.

IL DOPPIAGGIO

Oggi servono nuove competenze, nuove sensibilità e nuove voci per stare al passo con la varietà di storie e culture che vengono raccontate sullo schermo. «Il migliore doppiaggio è quello di cui non ti accorgi», sostiene Marco Guadagno. «Traducendo tradiamo l’originale, ma tradendo manteniamo la tradizione. La voce è uno strumento e quando suona emette note e porta vibrazioni, ha inoltre una valenza di mediazione linguistica e consente a tutti di usufruire di un contenuto. Ma serve una maggiore ricchezza di voci e di sonorità. Noi produciamo questa ricchezza». E se nell’adattamento o nel doppiaggio si cade, anche inconsapevolmente, in stereotipi e pregiudizi il tradimento è doppio. «L’intenzione del corso è proprio quella di rispettare le voci e le rappresentazioni», Gabriella Crafa è la vicepresidente di Diversity. «Le persone transgender o con disabilità devono essere rappresentate come persone concrete e non macchiette, un ragazzo autistico deve avere sullo schermo veridicità. Il nostro scopo è quello di portarli nel nostro contesto senza perdere ricchezza, senza mettere in campo rappresentazioni stereotipate».

GLI STUDENTI

Parlano di tanti mondi. C’è Marte, 28 anni, ragazzo trans, una laurea in recitazione in Inghilterra, «volevo mettere la mia voce a disposizione di questa causa». O Valerio, linguista e traduttore, che vuole «restituire alla lingua italiana una paletta sempre più ampia di identità che permettono a tutti di sentirsi parte del puzzle». Val, 24 anni italo camenurense, che fa teatro da quando è piccola. Sara, laurea magistrale in traduzione, «questo corso mi ha dato un’altra visione del mondo, mi ha aperto la mente. Cogli tante sfumature di significato e metti in dubbio tutto quello che pensavi di sapere. Mi sono accorta di parole che usavo non realizzando che fossero discriminatorie».

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Il Messaggero