Samaneh riesce a scappare dai talebani, ora in Italia racconta delle donne: «in Afghanistan sono schiave»

Samaneh è fortunata e ce l'ha fatta e ora, lontana da Kabul e dai Talebani, parla nelle università occidentali per raccontare la condizione della donna in...

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Samaneh è fortunata e ce l'ha fatta e ora, lontana da Kabul e dai Talebani, parla nelle università occidentali per raccontare la condizione della donna in Afghanistan drammaticamente precipitata dopo il ritiro delle truppe americane. Non possono studiare, né lavorare, né uscire senza un uomo che le accompagni. «Se sono libera in Italia, e non sono schiava dei talebani è solo grazie ai corridoi umanitari e all’accoglienza da rifugiata ricevuta nel vostro paese». Samaneh Nasiri è intervenuta ad un incontro che si è svolto all’Università degli Studi Internazionali di Roma – Unint dal titolo “Accoglienza e supporto” e dedicato ai migranti e rifugiati, per i quali si è da poco celebrata la Giornata Mondiale voluta dall’Onu. È la prima volta che racconta la sua storia a due anni dal ritorno al potere degli studenti coranici e dell’instaurazione del loro regime di terrore. 

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Samaneh era nel mirino dei talebani perché studiava all’università americana che era stata fondata nel 2006 da suo zio Sharif Sayez, primo ministro dell’alta educazione dopo il primo governo talebano. «Era un istituto no profit, io ero il frutto di una temporanea democrazia e dei 20 anni di presenza americana: mi ero laureata in Business Administration perché volevo promuovere la società civile, dare uguali diritti a uomini e donne e creare opportunità di lavoro per entrambi, senza distinzione. Ma subito prima di tornare al potere, su un loro sito i talebani definirono la mia università un covo di lupi e di spie. Ero terrorizzata, sapevo di essere in pericolo di vita». 

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Quando gli americani organizzarono il loro precipitoso ritiro dall’Afghanistan, Samaneh tentò di espatriare una prima volta, avendo i documenti per farlo, ma era all’aeroporto il giorno in cui, mentre prendevano il potere, i talebani lo bombardarono per impedire agli aerei di partire. Avrebbe dovuto essere esattamente nel luogo dell’esplosione, si salvò per miracolo. 

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Rimase nascosta per molti mesi, se i talebani l’avessero scoperta l’avrebbero uccisa. Per molte volte, racconta, tentò, in maniera organizzata, una fuga dal paese, in aereo, in bus, con altri mezzi, una volta, su indicazione ricevuta, con un burka che la copriva interamente. «Ero disperata, piangevo, ero ormai senza speranza. Io, una donna fino ad allora indipendente, ero prigioniera in casa, mi nascondevo vivendo al buio, disperata e depressa, la paura mi toglieva il fiato». 

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«Le donne in Afghanistan sono forti e coraggiose – continua Samaneh - vorrebbero combattere contro la discriminazione e il governo dittatoriale dei talebani, ma sono disperate, non possono più andare a scuola o all’università, non possono andare in palestra o al parco. Non possono nemmeno andare dal parrucchiere o lavorare. La sola idea che hanno i talebani delle donne è quella di macchine per fare figli. Devono essere utilizzate solo per quello. Sono tutte prigioniere, prigioniere nelle loro case. Molte in pericolo di vita, come tutte le amiche che hanno studiato come me all’università americana o lavorato in organizzazioni che non piacciono ai talebani. In pochi giorni, con il loro arrivo al potere, è stato tutto distrutto. Tutto. È come se le donne afghane stessero ora bussando a ogni porta, ma nessuna si apre. Noi, donne che viviamo fuori dall’Afghanistan, siamo la loro voce. Per favore, ascoltatela!». 


 

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Il Messaggero