Come si viveva bene spendendo e svalutando

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Si è ormai consolidata in Italia, in modo piuttosto trasversale, una generica avversione all'euro e ai vincoli sui conti pubblici che il nostro Paese deve rispettare per farne parte. Il tema sarà sicuramente al centro della campagna elettorale per il voto europeo, in primavera. Qualcuno lo imposta così: bisogna battere i pugni sul tavolo a Bruxelles (e/o a Berlino) per ottenere un trattamento diverso, sostanzialmente la possibilità di ignorare il limite del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil, e nel caso questo non fosse concesso, sarà meglio uscire dalla moneta unica. C'è anche chi teorizza direttamente l'abbandono unilaterale dell'euro come la migliore soluzione per rilanciare la nostra economia: il recupero della "sovranità monetaria" si tradurrebbe essenzialmente nella possibilità di svalutare. Sul fatto che in generale una politica di austerità non favorisca di per sé la crescita si può facilmente concordare. Ma volendo andare un po' più a fondo, qual è il modello a cui il nostro Paese guarda? Uno ce n'è e appartiene al passato recente: negli anni 70/80 l'Italia accumulava deficit di bilancio costruendo così l'attuale debito pubblico (solo inizialmente assorbito dall'altissima inflazione). A posteriori, si può ipotizzare che la qualità di quella spesa non fosse certo eccelsa, in termini di servizi al cittadino: basta pensare a baby-pensioni, invalidità facili e altri fenomeni che è ormai quasi un luogo comune deprecare. In compenso la pressione fiscale era più bassa, ma il livello di evasione fiscale si collocava probabilmente a livelli maggiori di quelli attuali. Molto sommariamente, l'economia era alimentata dalla mano pubblica e dalle esportazioni che si avvantaggiavano delle periodiche svalutazioni della lira. Proprio in quella fase storica sono state poste le premesse dei vincoli che oggi ci bloccano: se siamo costretti ad essere più virtuosi degli altri non è tanto perché ce lo chiede l'Unione europea, ma perché non possiamo spaventare chi ogni anno ci presta centinaia di miliardi acquistando i nostri titoli di Stato. La colpa del periodo successivo, diciamo dal '92 in poi, non è stato il rigore, ma l'incapacità di affrontare i ritardi strutturali, in un quadro di profondo cambiamento demografico, tecnologico, geopolitico etc. Allora si può anche sperare che esista un'alternativa saggia ed efficace ad una politica di austerità spesso effettivamente cieca. Ma visti i precendenti storici, da noi sarebbe tutta da inventare.
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Il Messaggero