Charlie, Dieudonné e gli altri: sarà vero che "ne uccide più la penna che la spada?"

Charlie, Dieudonné e gli altri: sarà vero che "ne uccide più la penna che la spada?"
“Ne uccide più la penna che la spada”, si dice. I tragici avvenimenti di questi giorni hanno fatto tornare in auge questo vecchio luogo comune. E lo stesso slogan, assieme a...

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“Ne uccide più la penna che la spada”, si dice. I tragici avvenimenti di questi giorni hanno fatto tornare in auge questo vecchio luogo comune. E lo stesso slogan, assieme a dimostranti che brandivano matite e altre “armi non convenzionali”, è stato portato in corteo in questi giorni nelle strade francesi.  

Ma sarà proprio così? E chi fu a coniare questa frase per primo?

L’esordio (letterario) avviene con un dramma scritto da  Edward Bulwer-Lytton nel 1893 e dedicato a Richelieu. Il cardinale, che presiede il governo del re francese Luigi XIII, scopre un complotto contro di lui, ma in quanto uomo di religione non si risolve a prendere le armi contro i suoi nemici. Quindi, esclama: “la penna è più forte della spada… mettetela via, gli Stati possono salvarsi anche senza”. La frase divenne un luogo comune già alla fine dell’Ottocento; e nel mondo ha subito diverse varianti. Da noi è diventato “ne uccide più la penna che la spada”. In francese il detto suona molto simile: "La plume est plus forte que l'epee". Un altro autore inglese, Robert Burton, in “Anatomia della malinconia”, a proposito degli effetti della satira, scrive che “una parola colpisce più a fondo di una spada” .

In realtà, questo detto è forse antico quanto la capacità dell’uomo di parlare, e quindi di ferire con il linguaggio. Ne abbiamo tutti esperienza. Euripide, poeta greco morto quattrocento anni prima di Cristo, viene talvolta citato per avere scritto qualcosa di simile. Il nostro Virgilio era invece molto più pessimista riguardo il potere della parola. “I nostri carmi, Licida, valgono tra le armi di Marte solo quanto, si dice, le caonie colombe all'arrivo delle aquile”, scrive in un’egloga. Napoleone, molto più tardi, ebbe a dire che “quattro giornali ostili sono da temere molto di più di mille baionette”. Oggi l’aneddoto non convince alcuni storici. Di certo, comunque, monsieur Bonaparte temeva il diritto di espressione e fece chiudere senza complimenti molte testate. Il modo in cui sono state usate le matite (o talvolta le penne) per protestare in piazza contro il barbaro attentato contro Charlie Hebdo lascia capire che tanti credono ancora che la parola (e nella società dell’immagine i disegni o i video) sia molto più potente della spada, o quanto meno delle armi da fuoco. Come al solito, però, pochi sono d’accordo sul modo di usare il proprio diritto di parola. Così, lo slogan “Je suis Charlie” è stato storpiato dal comico antisemita Dieudonné in “Je suis Charlie Coulibaly”, il nome di uno degli attentatori di Parigi. A dimostrare che le parole talvolta colpiscono nel segno, e possono far male, il controverso performer è stato arrestato. L’accusa è “apologia di terrorismo”. Lui si è scusato dicendo di voler soltanto “far ridere della morte”. Ma - e questo vale anche per i vignettisti - cosa c'era da sghignazzare?

Il successo planetario del nuovo numero di Charlie Hebdo, con un altro Maometto in copertina, dimostra che i fautori del libero pensiero, e quindi della parola come arma, sono molto numerosi. I giornali, i siti internet e le tv si sono divisi tra quelli che hanno pubblicato le vignette e quelli che le hanno date per scontate, per non provocare ulteriormente l’odio integralista. Ma di certo l’attentato (vile come ogni altro) contro un giornale satirico si è rivolto contro gli stessi fondamentalisti a caccia di obiettivi occidentali.
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Il Messaggero