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«Parla come mangi!». È un modo di dire popolare, forse un po’ provocatorio che però ben evidenzia il bisogno a tavola di essere chiari, diretti e semplici. Perché quando si parla di cibo si deve andare al sodo, al nocciolo della questione: agli ingredienti. Partendo da questa visione concreta del cibo è nata l’idea del volume “Gli chef e la Cucina Romana” de Il Messaggero, una raccolta di cento ricette dei nostri cuochi, curata da Giacomo A. Dente. A tutti gli effetti una guida gastronomica. La storia delle guide nasce da lontano: la prima raccolta di ricette legate alla cucina italiana viene scritta nel 1935, quando il giornalista Paolo Monelli e l’illustratore Giuseppe Novello partono per un viaggio gastronomico alla scoperta di trattorie e ristoranti d’Italia.
Un documento che spiega “come eravamo” in cucina poco meno di un secolo fa. Se poi ci si sofferma sulla testimonianza culinaria della Capitale, la vicenda appare ancor più affascinante. Quando gli autori arrivano a Roma non lesinano spezie al racconto: «La cucina romana è saporitissima, aggressiva e policroma; ma è rusticana; e Roma imperiale, papale, diplomatica, quando vuole mangiare di gusto va a chiedere le ricette al ghetto degli ebrei o ai vicoli della plebe.
Mancava, accanto a un consolidato corpus di ricette tradizionali, una testimonianza corale sui sapori a Roma in questo nuovo Millennio. “Gli chef e la Cucina Romana” è infatti un racconto passionale, che evidenzia una Roma a molte velocità e tanti nuovi sapori. Non mancano i classici come l’abbacchio e la pajata, ma vi si affiancano di pari passo nuovi racconti, spesso attraversati da ingredienti che travalicano i confini regionali, toccando procedure mutuate dalle cucine del mondo. La tavola dei romani continua a essere materica e succulenta, fedele ai vecchi spartiti, ma si è affermata anche una pattuglia di chef che, partendo da basi romanesche, fanno viaggiare il palato e la fantasia verso nuovi lidi, passando per una rinnovata attenzione al chilometro zero e alla qualità della materia prima. Di questa nuova sensibilità, meno orientata ai dolci (non a caso in questo volume sono pochissimi) si trova testimonianza nei materiali presenti in questo volume: dalle trattorie ai roof dei grandi alberghi, più che mai in prima linea nella pattuglia dei luoghi del gusto in città. È in questa polifonia che Roma è diventata un polo enogastronomico con personalità. Unica e irripetibile anche in questo, perché la Roma della Grande Bellezza ha saputo anche diventare la Roma della Grande Bontà. Rimane allora la voglia di approfondire per idealmente assaggiare qualche ricetta, come quella di Checchino dal 1887 dei fratelli Mariani ruvida come un sonetto di Trilussa o del talento emergente Andrea Antonini, che si avvicina nelle sue complessità all’Ulysses di Joyce.
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