I moti del ‘71/ Mario Camilli: «Il cinquantenario per ricominciare a parlare di futuro»

Tefferugli in centro all'Aquila nel febbraio del 1971
L'AQUILA Il prossimo febbraio ricorrono i 50 anni dei “Moti aquilani del ‘71” per il capoluogo, un passaggio epocale per la città. Un passaggio...

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L'AQUILA Il prossimo febbraio ricorrono i 50 anni dei “Moti aquilani del ‘71” per il capoluogo, un passaggio epocale per la città. Un passaggio epocale, soprattutto per guardare al futuro dell’Aquila, è anche questa ricorrenza “tonda”, seppure in una congiuntura mondiale così difficile legata alla pandemia: questa la sollecitazione-provocazione che arriva da Mario Camilli, giornalista e, per anni, protagonista della vita cittadina.



Al pari degli esseri viventi, anche le città nascono, crescono o decadono, a causa di fenomeni economici sociali e demografici ma anche per questioni ambientali. Sappiamo bene noi aquilani quanto conti vivere in una zona sismica, ma io vorrei soffermarmi su un altro aspetto che cambiò in profondità la città: la rivolta del febbraio del 1971 e soprattutto, le conseguenze di questo evento.

Mancano pochi mesi a quel cinquantenario, due generazioni sono passate e c’è il rischio di vivere la ricorrenza come una semplice operazione ricordo senza che se ne analizzino e se ne discutano le trasformazioni che tale episodio determinò. Così come il fascismo cambiò il volto materiale cittadino con massicci interventi architettonici, alla rivolta seguì una repentina ed effimera trasformazione nella base sociale ed economica.

Una modernità, quella della industrializzazione, durata meno di un ventennio che creò espansione dei servizi, fenomeni di inurbamento a scapito del comprensorio ma che ha scavato in profondità nella identità cittadina erodendone le prospettive che una classe dirigente, forse un po’ troppo elitaria, dal Dopoguerra stava disegnando.

Se dai primi anni sessanta ai primi anni settanta si dava corso all’istituzione di enti quali l’Università, forse l’unica realtà che ha retto fino al terremoto e speriamo anche dopo, e a livello sociale dimostrava di essere viva in ogni campo, dallo sport alla cultura, la nuova L’Aquila post rivolta è arrivata alla fine del secolo scorso in evidente e lancinante declino.

Certamente nel rapporto con la regione “matrigna” non si è provato a praticare quel ruolo di leadership che il capoluogo dovrebbe avere relegandolo, anche per motivi di peso elettorale, alla sola funzione amministrativa. La comunità cittadina è sembrata accontentarsi di un presente dimostratosi senza prospettive rinunciando, magari dibattendo al suo interno, alla nuova dimensione regionale e preferendo il rapporto con Roma.

In conclusione, ora che la città post terremoto si ricostruisce e si offre al mondo con tutto il suo splendore, le ruggini di quel malinteso sviluppo e di un vittimismo ormai quasi costituzionale, rischiano di farci perdere anche questa opportunità. Di questi tempi, grami e dolorosi, in un quadro di regresso demografico e invecchiamento della popolazione, cercare colpevoli al di fuori di noi è una tentazione da evitare. È forse giunto il tempo della responsabilità solidale e di iniziare da qui anche una nuova fase del rapporto con la regione, valutarne il sistema, esprimere una visione, cercarne la condivisione.

Ma dove è finita la comunità cittadina? Dove sono i luoghi di dibattito pubblico, di elaborazione, di iniziativa, nell’epoca in cui i partiti nascono e scompaiono nel giro di una legislatura? Sembra si voglia ripetere in una tradizione secolare quanto i protagonisti della rivolta anti borbonica del 1841 non fecero nel fatidico 1848.

Cinquant’anni, due generazioni sono in grado di leggere il passato, di valutarne il peso. Prepariamo questo cinquantenario oltre la retorica e il vittimismo, si ricominci a parlare di futuro, a ricomporre il puzzle di scelte complesse e difficili che ridiano un senso alla cittadinanza e un ruolo propulsivo alla città. Ora sembra ci si sia adagiati in una attesa fatta di gru e calcestruzzo ma la realtà ci guarda sorniona. Guardare oltre per vivere ancora.

Mario Camilli
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il Messaggero