«Ho vinto l’ultima battaglia dopo 45 giorni di ospedale di cui 30 passati da intubato, ma devo tutto al dottor Giustino Parruti, l'infettivologo...
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E poi? «L'unica cosa che ricordo, dopo che mi hanno applicato la mascherina con l’ossigeno, sono le porte dell’ascensore. Pensavo fosse passato un giorno e invece ne erano trascorsi 30: ero stato tracheotomizzato e avevo mani e piedi legati. Dalla rianimazione al reparto malattie infettive dove resto 15 giorni».
Quali erano le sue condizioni? «Il dottor Parruti mi ha raccontato che la prima TAC evidenziava entrambi i polmoni quasi del tutto danneggiati e apparivano come se fossero di vetro smerigliato. Il diciottesimo giorno non rispondevano più: ero praticamente morto, Parruti chiamò mia sorella a Londra dicendole di prepararsi al peggio. Ma quella stessa notte lui tornò nella mia stanza per tentare il tutto per tutto, confidando nel cuore che ancora batteva forte. Mi bombardó i polmoni di Eparina e di un altro farmaco che veniva usato per l’artrite. Dopo un giorno e mezzo i miei polmoni erano stati puliti quasi completamente».
E quando sei tornato a casa come ti sentivi? «Psicologicamente male, perché non capivo come fossi arrivato a un passo dalla morte senza avere patologie particolari: io soffro di glicemia alta, ma solo sotto stress. Ricominciare è stata dura: le funzioni vitali sono state ferme parecchi giorni, i polmoni erano grandi come quelli di un bambino di nove anni e, dopo tre mesi, sono il 65% della grandezza normale. Quando cammino un po’ di più, mi devo fermare. Mi ritengo un miracolato perché questa malattia può intaccare anche la corteccia cerebrale e provocare una sorta di sindrome depressiva: il mio compagno di stanza ha tentato il suicidio". Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero