Coronavirus, Luciano intubato per 30 giorni: «Ero quasi morto, poi il miracolo dei medici»

Coronavirus, Luciano intubato per 30 giorni: «Ero quasi morto, poi il miracolo dei medici»
«Ho vinto l’ultima battaglia dopo 45 giorni di ospedale di cui 30 passati da intubato, ma devo tutto al dottor Giustino Parruti, l'infettivologo...

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«Ho vinto l’ultima battaglia dopo 45 giorni di ospedale di cui 30 passati da intubato, ma devo tutto al dottor Giustino Parruti, l'infettivologo dell’ospedale di Pescara e alla dottoressa Antonella Frattari della rianimazione» . Così Luciano P., consulente aziendale di 45 anni, racconta la sua disavventura con il coronavirus. «Per sei giorni mi hanno rifiutato il tampone, nonostante, con febbre a 40, avessi tutti i sintomi del coronavirus. Rifiutavano perchè, fra i tanti sintomi, avevo una forte dissenteria incompatibile. Mi hanno somministrato l’antibiotico Rocefin, ma allora nessuno ne sapeva nulla. Il settimo giorno, il 14 marzo, ero distrutto, non riuscivo ad alzarmi dal letto ed a quel punto ho chiesto a mia madre di chiamare il 118. Appena arrivati, si sono resi conto della gravità e senza neanche visitarmi mi hanno portato direttamente a Pescara. Parruti mi ha spiegato che all’inizio di marzo non si era capita l’importanza della “rapidità della diagnosi”. Oggi è diverso: si è capito che se il virus si contrasta agli esordi non crea nessun danno; infatti, mia madre portata immediatamente in ospedale, è stata curata con la sola mascherina dell’ossigeno».


E poi? «L'unica cosa che ricordo, dopo che mi hanno applicato la mascherina con l’ossigeno, sono le porte dell’ascensore. Pensavo fosse passato un giorno e invece ne erano trascorsi 30: ero stato tracheotomizzato e avevo mani e piedi legati. Dalla rianimazione al reparto malattie infettive dove resto 15 giorni».

Quali erano le sue condizioni? «Il dottor Parruti mi ha raccontato che la prima TAC evidenziava entrambi i polmoni quasi del tutto danneggiati e apparivano come se fossero di vetro smerigliato. Il diciottesimo giorno non rispondevano più: ero praticamente morto, Parruti chiamò mia sorella a Londra dicendole di prepararsi al peggio. Ma quella stessa notte lui tornò nella mia stanza per tentare il tutto per tutto, confidando nel cuore che ancora batteva forte. Mi bombardó i polmoni di Eparina e di un altro farmaco che veniva usato per l’artrite. Dopo un giorno e mezzo i miei polmoni erano stati puliti quasi completamente».


E quando sei tornato a casa come ti sentivi? «Psicologicamente male, perché non capivo come fossi arrivato a un passo dalla morte senza avere patologie particolari: io soffro di glicemia alta, ma solo sotto stress. Ricominciare è stata dura: le funzioni vitali sono state ferme parecchi giorni, i polmoni erano grandi come quelli di un bambino di nove anni e, dopo tre mesi, sono il 65% della grandezza normale. Quando cammino un po’ di più, mi devo fermare. Mi ritengo un miracolato perché questa malattia può intaccare anche la corteccia cerebrale e provocare una sorta di sindrome depressiva: il mio compagno di stanza ha tentato il suicidio". Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero