Separazione delle carriere in magistratura. Auriemma: «Il giudice non è un arbitro di calcio»

Il procuratore capo di Viterbo, Paolo Auriemma
di Paolo Auriemma
7 Minuti di Lettura
Sabato 24 Giugno 2017, 09:00 - Ultimo aggiornamento: 16:11
Sulla tematica relativa alla separazione delle carriere nella magistratura, pubblichiamo l'intervento del Procuratore capo di Viterbo, Paolo Auriemma.
 
«Ancora una volta si pone la questione della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri e la si pone secondo uno schema ormai consolidato, assumendo che rapporto di colleganza tra giudici e pubblici ministeri inquinerebbe il corretto svilupparsi delle dinamiche processuali. L’esempio che spesso si fa, anzi l’esempio che sempre si continua a fare in modo anche stucchevole è quello delle due squadre di calcio che si affrontano vestendo l’arbitro, nel nostro esempio il giudice, la stessa casacca della squadra del pubblico ministero. 

«È proprio la metafora del gioco che è inaccettabile perché il processo gioco non è, è il luogo dove si cerca, attraverso delle norme processuali, di far sì che la verità che  gli uomini possono accertare coincida con la verità reale, e contemporaneamente mezzo per difendere gli interessi della collettività e quelli di un indagato che deve vedere tutelata anche nella fase delle indagini la massima espansione del proprio diritto di difesa. La ragione per cui storicamente in Italia i giudici di pubblici ministeri fanno parte dello stesso ordine, spesso si usa la impropria espressione “fanno la stessa carriera” è data proprio dal ruolo che il pubblico ministero italiano, ma direi a qualsiasi pubblico ministero che si è inserito nella cultura continentale deve svolgere. 

«Ciò che viene chiesto al pubblico ministero non è una generica difesa della collettività, compito proprio della polizia, ma una ricerca imparziale della verità attraverso il rigoroso rispetto delle regole, l’applicazione delle leggi conformemente alla indicazione che se ne può trarre dal quadro costituzionale, un’indifferenza per il risultato finale che è proprio la cultura della giurisdizione. Questa espressione, cultura della giurisdizione è concetto su cui ruota l’intero sistema giudiziario. Può essere definita indifferenza per i risultati, capacità di non farsi condizionare per gli esiti del processo, forza di procedere secondo le regole anche se il risultato non era quello che non ci si aspettava o che non viene percepito come giusto dalla collettività.

«In sistemi giuridici diversi, su tutti in quello statunitense che tante volte ci condiziona all’esito dei tanti film che vediamo, il pubblico ministero, lì definito accusatore, è portatore di un interesse particolare tanto che la sua nomina e condizionata da una vera e propria elezione. E’ questo fatto che ci deve fare riflettere: chiunque sia espresso da una parte sarà portatore di interessi di quella parte, mentre il giudice, così come il pubblico ministero italiano, è soggetto caratterizzato dalla sua assoluta imparzialità. Erronea la critica di chi dice che il pubblico ministero è soggetto che accusa. Ciò che occorre guardare e quella prima fase che si chiama delle indagini preliminari. E, in quel momento il pubblico ministero ricerca le prove in modo che definirei asettico, deve farsi, perché ciò è espressamente previsto dalla legge, carico della tutela dei diritti dell’indagato che forse ancora non conoscete l’esistenza di un processo a suo carico, deve ricercare le prove senza alcuna distorsione in modo che gli elementi raccolti possano poi essere confrontati nel proseguio del processo senza che interferenze culturali ne condizionino l’acquisizione. 

«Il difensore ha altri doveri, deve sostenere una tesi di parte, evidenziare le ragioni di una assoluzione o di una riduzione di pena nel momento in cui si giunga ad una condanna. Le parole stesse utilizzate il nostro sistema giuridico danno la chiara idea dei ruoli. Il difensore deve, appunto, difendere e sostenere la tesi del proprio cliente, il pubblico ministero è soggetto imparziale portatore dell’interesse pubblico di più ampio spessore, quella della esatta applicazione della legge. Il suo ruolo non finalizzato ad ottenere la condanna ma quello della applicazione imparziale dedlla legge alla ricerca della ricostruzione dei fatti reati e di eventuali responabilità, quello della difesa dei primari interessi di tutta la collettività, ed in quella collettività è ricompreso anche l’imputato i cui punti di vista devono essere ascoltati e vagliati, così come dovrà fare il giudice ove dalle indagini preliminari si arrivi ad un processo.

«Chiaramente diverso il ruolo del pubblico ministero nella fase del pubblico dibattimento, quando si è formato un’idea nata dall’esame degli elementi raccolti nella fase delle indagini preliminari e lì porterà la propria idea che, nel più delle volte, sarà quella dimostrare gli elementi di colpevolezza del soggetto che ha tratto a giudizio. E non è di poco conto l’espressione che appena usata “nel più delle volte”, perché capita, anzi capita spesso, che il pubblico ministero che vede nel contraddittorio che costituisce la garanzia del processo, nel confronto con il difensore,i modificarsi gli elementi di prova che riteneva inattaccabili modificherà , di conseguenza, il proprio iniziale punto di vista e chiederà la assoluzione.

«Questo perché la capacità di modificare il proprio punto di vista a fronte di emergenze processuali diverse fa parte della professionalità del magistrato italiano, sia esso  o giudice sia esso pubblico ministero. Una norma all’interno del codice di procedura penale italiano impone al pubblico ministero anche nella fase delle indagini di cercare elementi di prova anche a favore dell’indagato. Tale norma non è un mero consiglio che si da al magistrato che sta ricostruendo i fatti nel momento della istruttoria, ma una vera e propria regola giuridica che impone i comportamenti. Come potrebbe pensarsi di chiedere al difensore di porre a disposizione di colui che sta svolgendo indagini prova a carico del proprio cliente indagato? Basta questo esempio per mostrare quale differenza di ruoli ci sia e quanto l’esempio del gioco sia fuorviante, sebbene suggestivo.

«Ma qui non c’è da suggestionarsi, qui c’è da riflettere perché in gioco è il sistema istituzionale di un paese, c’è in gioco la storia della propria cultura. A ciò si aggiunga questione completamente diversa ma non meno grave, la questione politica. È chiaro che porre il pubblico ministero all’interno della magistratura significa dargli le garanzie che sono proprio del giudice, e questo in modo sconcertante sembra voler essere eliminato nel futuro.  Essere magistrato ed essere inserito in un sistema ordinamentale che ruota sulla autonomia ed indipendenza, cioè, lo si dica chiaro, dalla impossibilità di condizionamenti politici, economici e sociali, lontano da ogni centro di potere in grado di condizionare progressioni verso posti più comodi, garantisce la possibilità di costruire i fatti in modo sereno.

«In tutti i paesi in cui il pubblico ministero non è legato, nella propria carriera, al giudice viene subordinato sistematicamente alla politica. Nascondere questa evidente verità immaginando un cosiddetto Consiglio superiore dei pubblici ministeri, organo che avrebbe la durata della sua fittizia funzione, significa creare ulteriore confusione, nascondendosi la vera finalità che sottende ad ogni riforma in questo senso, quella della eterodirezione della magistratura requirente. In tal modo, seccando e gestendo il seme delle indagini e comunque potendolo condizionare per via politica si vanificherà il processo stesso, l’attività del giudice, il fine ultimo dell’accertamento della verità che, per sua natura, deve avere nel l’imparzialità il suo mezzo. 

«Mi chiedo quali siano davvero i fini ultimi di coloro che vogliono superare l’attuale organizzazione dell’ordinamento giudiziario, forse ritenendo che creare un pubblico ministero certamente più debole perché condizionabile, dall’altra parte molto più forte perché è chiaro che i mezzi verrebbero dati in modo più cospicuo ad organi dello Stato in grado di portare un risultato che con la giustizia poco avrebbe a che fare, ma che naturalmente farebbe comodo al potente di turno,  che sarebbe legato alle variabilità politiche che in Italia conosciamo da sempre. Vi è da sperare che che vuole riforme penalizzanti per la autonomia della Magistratura sia ispirato soltanto dalla ingenua volontà di scimmiottare paesi diversi dal nostro e con culture radicalmente diverse, di più remota democrazia, con un più solido controllo sociale.

«Occorre invece riflettere sulle ragioni per le quali il Costituente volle porre a favore del l’organo titolare delle indagini preliminari tutte le garanzie che erano proprie del giudice, volle far in modo che questi sì calasse nella cultura della giurisdizione e ne facesse il suo abito mentale e la sua fonte di ispirazione. I grandi artisti sono sempre capaci spiegare con poche parole quelle idee che noi comuni mortali cerchiamo di chiarire con troppe parole. Il regista Rosi,  nel film ambientato durante il fascismo “Il Prefetto di ferro” fa rivolgere una frase dal Prefetto Mori al Procuratore generale della Corte d’appello di Palermo che si opponeva all’idea di forzare le norme processuali per risolvere problemi sociali: “Io sono il prefetto e rappresento il Ministro dell’Interno e lei farà quello che io dico di fare”.

«Questo il rischio che consapevolmente chi scrisse la Costituzione del 1948 ha voluto sventare e questo è il rischio che riforme ordinamentali e costituzionali propongono nuovamente in un sistema che credevamo solido, ma che ogni singolo giorno va difeso da ogni cittadino».
© RIPRODUZIONE RISERVATA