L'arbitro lascia, parla Tagliavento: «Io romanista? Ma se mi davano del laziale»

L'arbitro lascia, parla Tagliavento: «Io romanista? Ma se mi davano del laziale»
di Roberto Avantaggiato
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 30 Maggio 2018, 11:34 - Ultimo aggiornamento: 16:18
dal nostro inviato

TERNI La stanza non è grande, ma contiene un mondo di sogni, di certezze e di soddisfazioni. È piena di palloni, fotografie, riconoscimenti e un armadio colmo di maglie di squadre di calcio. Il mondo è di Paolo Tagliavento, e dallo scorso 13 maggio si è trasformato nel suo archivio storico. È qui che l'arbitro di Terni si racconta ad un bivio della sua vita, quello che ti fa lasciare la strada vecchia per una nuova.

Tagliavento, cosa si prova a sentirsi un ex?
«Non lo so, perché ancora non ho realizzato. Questo, per noi, è solitamente il periodo delle vacanze. Me ne renderò conto solo a luglio».

L'abbraccio di Daniele De Rossi, immortalato dalle telecamere, però è stato inusuale
«Ma non è stato il solo che ho ricevuto. D'altronde, dopo 15 anni e 221 gare dirette, con tanti calciatori si è instaurato un rapporto di reciproca stima».

Qualcuno però ha equivocato su alcuni gesti...
«Se si riferisce ad Allegri, non vale nemmeno la pena di commentare quanto è stato detto e scritto».

L'ha emozionata tanto affetto?
«Mi ha fatto piacere che sia arrivato da tanti simboli del nostro calcio. Le emozioni vere, però, me l'hanno date gli amici e la mia famiglia nella festa di qualche giorno fa a Spoleto».

Le lacrime sono spuntate?
«Quelle sono uscite a Coverciano, quando Rizzoli e gli altri arbitri di serie A hanno salutato me e Damato. Un momento davvero commovente, che non dimenticherò mai». 

In fondo, anche quella è la sua famiglia
«Certamente. Il difficile infatti non è togliere la maglia da arbitro, ma lasciare un gruppo di persone fantastiche con le quali ho diviso parte della mia vita».

Si sente appagato della sua carriera sportiva?
«Sì, sono sereno. Ho fatto quello che volevo fare, coronando il mio sogno e dando sempre il massimo di me stesso».

Avrebbe potuto raccogliere qualche soddisfazione in più?
«Ho fatto quello che ho meritato di fare. Mi sarebbe piaciuto dirigere una finale mondiale o di coppa europea, ma se qualcuno è andato più avanti di me, vuol dire che era più bravo».

Lei, Rizzoli e Rocchi avete guidato la squadra del rilancio arbitrale dopo Calciopoli
«Quello è stato un periodo tremendo. Personalmente ho vissuto giorni terribili, che per fortuna sono durati poco».

Quando è stato tirato dentro l'inchiesta ha pensato di dover smettere?
«No, perché ero certo di me stesso e della mia onestà. Ero completamente estraneo e sia la giustizia sportiva che quella penale lo hanno appurato in brevissimo tempo».

Cosa l'ha sostenuta di più in quel periodo?
«I miei cari e la stima di chi mi conosceva bene. Mia moglie Cristina, in particolare, non ha mai smesso, prima di ogni gara, di mandarmi un sms con scritto Ti amo campione. Ecco, la mia campionessa è stata lei in tutti questo anni».

Vissuti perdendo qualcosa sul piano affettivo
«Sì, lo so. Ho perso qualcosa nella crescita dei miei figli, Gianmarco e Martina. Era difficile spiegare loro come mai il papà, ogni sabato e domenica, andasse via e loro dovessero andare al parco senza di me. E quando mia madre è morta, io ero a San Siro a dirigere».

Nel conto finale, ha dato o ricevuto di più?
«Ho ricevuto tanto, perché l'uomo che sono oggi lo devo al fatto di aver scelto di fare l'arbitro a 17 anni».

L'arbitraggio come scuola di vita?
«Esatto. Quando scegli questo percorso, impari a prendere da solo decisioni già all'età di 15-17 anni: è così che impari a crescere prima. Lo dico sempre nelle scuole dove sono invitato».

Farebbe fare l'arbitro a suo figlio o a sua figlia?
«Faranno quello che vorranno fare. Sarei però entusiasta se si appassionassero agli arbitraggi, anche se a Giammarco, che ha 9 anni, il calcio non piace. E Martina, che di anni ne ha 15, fa danza»

Tornando alla sua carriera. Le dava fastidio che la chiamassero l'arbitro-parrucchiere?
«Perché avrebbe dovuto? Era la mia professione prima che diventassi arbitro in serie C. Se poi qualcuno lo usava come dispregiativo, il problema era soltanto suo. Fare il parrucchiere è un mestiere nobilissimo».

E le manette di Mou in Inter-Sampdoria le diedero fastidio?
«Solo per un attimo, perché poi tutti i commenti mediatici e quelli del mio organo tecnico conclusero che avevo diretto molto bene»

Lei era in campo, sempre a San Siro, anche nel famoso gol-non gol di Muntari
«Sì, quello è stato il mio errore più evidente. Che oggi si sarebbe evitato in un decimo di secondo».

Si riferisce alle novità tecnologiche degli ultimi anni?
«Sì. Una volta eravamo solo noi e gli assistenti con due bandierine. Poi sono arrivati gli auricolari, gli addizionali, la goal-line ed ora la Var. D'altronde, c'è stata quell'evoluzione che Rizzoli, nel suo primo giorno del raduno, ha riassunto con una frase di Darwin: Non è il più forte che sopravvive, né il più intelligente, ma il più aperto al cambiamento».

A proposito di video assistenza: gira voce che non tutti la gradiscano
«È una voce e nulla più. Qualche perplessità davanti alle novità c'è sempre stata, ma oggi non si può più fare a meno della Var».

Lei ha diretto derby in ogni parte d'Italia, si considera uomo derby?
«No, mi considero solo un arbitro che è stato chiamato a dirigere gare con un elevato grado di difficoltà».

Qual è il derby più difficile da arbitrare?
«Ogni sfida cittadina ha le sue difficoltà. Ma per caratteristiche direi che quello di Roma e di Genova non sono niente male».

Derby di Roma, un rapporto che non è mai stato facile?
«E' vero, perché quando perdeva la Roma ero laziale e quando perdeva la Lazio ero romanista. È normale che nella carriera di ogni arbitro ci siano score diversi con ogni squadra, ma sono semplici dati per le statistiche».

Le partite, italiana e straniera, alle quali è legato?
«Due derby, appunto. Quello di Roma, che segnò la mia centesima gara in serie A; e quello britannico tra Scozia e Inghilterra del 2017, che valeva come gara di qualificazione mondiale. Due gare palpitanti e con un'atmosfera incredibile».

Il primo anno di Rizzoli designatore com'è andato?
«Benissimo. Ma che Nicola fosse un fuoriclasse lo avevamo intuito da tempo».

E Tagliavento a luglio cosa farà?
«Non lo so ancora. Sarà l'Aia a decidere il mio nuovo percorso arbitrale. Vorrei però trasformare il mio bagaglio di esperienza in insegnamento per i ragazzi. Ricordo ancora quello che fece Farina con noi, quando arrivammo per la prima volta a Sportilia. Ci chiuse in una stanza e ci spiegò cosa significava stare lì, in quel gruppo di arbitri che avevamo solo visto in televisione. Fu splendido, un vero maestro».
 
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