L’esempio di Mohamed Alì, e lo sport che non deve andare a tappeto

L’esempio di Mohamed Alì, e lo sport che non deve andare a tappeto
di Paolo De Angelis*
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Venerdì 10 Giugno 2016, 16:50 - Ultimo aggiornamento: 21:24
Il mondo piange Alì e il cordoglio è globale; il discorso funebre sarà tenuto oggi da un ex Presidente, Clinton, e il Presidente Obama lo ha definito “campione dei diritti civili”. Straordinario personaggio quest’uomo, peso massimo e non solo per la categoria pugilistica: ha attraversato i suoi 74 anni con forza, ben oltre le corde del ring, ha imposto la sua visione del mondo e della società. Una grande lezione, dallo sport ed oltre lo sport.

Oggi ne ricordiamo la capacità di lottare per i suoi ideali ed è giusto riconoscere il valore della sua battaglia, che è andata ben al di là della dimensione personale, assumendo i contorni leggendari di una figura che ha contribuito a trasformare la società americana e, di riflesso, il mondo intero, su temi fondamentali come i diritti civili, l’autodeterminazione, l’uguaglianza. Per questi principi, Alì ha cambiato persino il suo nome di battesimo, lo riteneva un nome da schiavo e non da uomo libero qual era; ha rifiutato la leva, per non combattere contro i vietcong, perché “non mi hanno mai chiamato negro”; ha denunciato il razzismo ed ha rivendicato l’orgoglio dei popoli di ogni colore. Sembra una storia inventata, tanto è ricca di colpi di scena e di crudeli alternanze tra momenti di gloria e tracolli devastanti: da campione olimpico a Roma 60, gettò la sua medaglia d’oro nel fiume che bagna Louisville, la sua città natale, per reazione alle discriminazioni razziali che era costretto a subire, per non parlare del titolo di campione mondiale, sottrattogli a tavolino perché era stato renitente alla leva per la guerra in Vietnam. Si è sempre rialzato ed ha proseguito senza tentennare lungo la via dei suoi ideali e dei suoi obiettivi, sportivi e (in senso alto) politici.

La sua figura è stata, in primo luogo, quella di un grande atleta, un uomo di sport dotato dalla natura che ha coltivato il suo talento con la sofferenza di allenamenti estenuanti, senza risparmiarsi, per interpretare sul ring quel pugilato elegante e potente che ancora oggi, a distanza di decenni, è un modello irripetibile di classe, l’arte nobile ai suoi massimi livelli. Oggi, in primo piano, c’è il ricordo del suo valore in campo sociale e persino culturale, per avere esaltato il valore della disobbedienza come strategia di protesta non violenta ed efficace; ma il ricordo deve concentrarsi, soprattutto, sul significato sportivo della sua vita e sull’influenza che lo sport ha avuto nel far emergere le sua qualità dialettiche e i suoi metodi per rifiutare le ingiustizie. È questo il senso da attribuire al lutto mondiale per la scomparsa di Alì: utilizzare la sua morte come spunto di riflessione sull’impatto che lo sport ha sui singoli individui e sulla loro crescita ma anche come fenomeno di sviluppo della società e di motore del cambiamento.

Lo sport ha nel suo DNA questa caratteristica di mezzo attraverso il quale l’individuo si cimenta e, sfidando sé stesso ed i propri avversari, affronta e riconosce i propri limiti, alla ricerca di un modo per superarli; la parabola di Alì, bambino nero e povero che si impone a livello mondiale e sfida persino lo zio Sam, per seguire il proprio ideale pacifista ed antirazzista, è la storia esemplare di una crescita che non è solo esibizione muscolare ma soprattutto presa di coscienza di sé e del valore che il singolo può avere rispetto alla società in cui vive (ed anche, all’opposto, di ciò che la società rappresenta per l’individuo). Allora, è il caso di pensare a questa prospettiva, cogliendo l’occasione di una scomparsa per riempirne il vuoto con una visione etica: ripensare lo sport, riprendere il filo interrotto dei valori che lo sport diffonde e, ricordando Alì, mostrare quali strade lo sport è in grado di aprire davanti a coloro che lo praticano o lo seguono o anche solo se ne interessano. Sono tutti significati profondi che lo sport ha avuto e che oggi ha smarrito, sotto i colpi degli scandali, delle combine, del doping, del grande business che è diventato, a tutti i livelli. Ma, pur perduti, sono ancora i valori dello sport: d’altronde, Alì è stato, per vent’anni, al centro del più gigantesco fenomeno di sport sotto i riflettori che si possa immaginare eppure non ha esitato a criticare il sistema dall’interno, forte del suo carisma e della sua eccellenza sportiva ma anche della trasparenza del suo comportamento, che gli consentiva di indicare al mondo la via eticamente corretta di una vita realmente sportiva.

La forza del suo esempio non deve morire con lui ma deve anzi essere da oggi in poi oggetto di diffusione tra le giovani generazioni, alle quali insegnare che non ci sono traguardi preclusi, se si seguono gli ideali che, da ragazzi, riempiono i sogni. La rabbia era la forza di Alì, lo sport la sua arma di riscatto, le regole del ring la sua legge morale. Rispetto degli avversari e coraggio delle proprie azioni. È l’eredita del Più Grande. Lo sport come metafora della vita. O la vita come metafora dello sport.

*sostituto procuratore della Repubblica Tribunale di Cagliari

 
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