Se la serie Gomorra ci porta a fare il tifo per il boss

Se la serie Gomorra ci porta a fare il tifo per il boss
di Luca Ricci
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Mercoledì 21 Maggio 2014, 14:46 - Ultimo aggiornamento: 30 Maggio, 12:46

“Gomorra la serie” tenta una cosa che il film di Matteo Garrone non si sarebbe mai sognato di fare: spalancare la casa del boss, raccontare dall’interno le gesta di un clan: la famiglia Savastano. Garrone raccontava la storia di un sarto, di un impreditore dei rifiuti, di un contabile e di due giovani affiliati, personaggi gogoliani che garantivano uno sguardo mai frontale, e quindi davano modo allo spettatore di costruirsi un pensiero autonomo sul Male.

In questa serie televisiva invece si è scelto di procedere al contrario: mettere in scena il boss, la di lui moglie, il di lui figlio, lo scagnozzo, senza mai un contraltare se non altri cattivi, altri criminali.

Morale: l’autonomia critica dello spettatore non più cinematografico ma televisivo - quindi di per sé dotato di uno sguardo distratto, per non dire passivo - è ridotta al lumicino. Inutile girarci intorno, per tutta la durata dei primi sei episodi ci troviamo a fare il tifo per i Savastano.

Ed è inutile che qualcuno per difendere l’operazione tiri in ballo gli argomenti nobili che un tempo venivano usati per l’apologia della buona letteratura: il compito dell’arte è quello di raccontare l’inaudito. Che cosa fa Bret Ellis in “American Psycho” se non indurci all’empatia verso un serial killer? Ecco, tutto questo non funziona per una serie televisiva che per costruzione psicologica dei personaggi non è molto diversa da “Un posto al sole”, di cui, in latenza, potrebbe finire per fare da intercambiabile doppelgänger. Così, quasi ci trovassimo di fronte alle immutabili maschere di una Commedia dell’Arte da incubo, il boss Savastano è un duro, la di lui moglie è un’arpia, il di lui figlio un bambinone, lo scagnozzo uno scaltro.

E vien meno anche il principio più importante di “Gomorra il romanzo”, ovvero la denuncia sociale, portare il modus operandi camorrista all’attenzione dell’opinione pubblica, della società civile: qui c’è solo una spettacolarizzazione fine a se stessa, nessun intento di far capire come opera la malavita. Si dirà che funzionava così anche “Il padrino”. Ma all’epoca dell’uscita del film di Coppola e Puzo (era il 1972) le mafie erano dentro un cono d’ombra, per una buona parte del mondo neanche esistevano, e quindi la pellicola valse come prima querela rudimentale. Viceversa, già con “Scarface” di De Palma e Stone (era il 1983), la vita del narcotrafficante Tony Montana diventò un pericoloso serbatoio mitico per le stesse organizzazioni criminali (dalla quale attinsero espressioni, atteggiamenti, gusto estetico).

Uno dei meriti maggiori della produzione televisiva è stato - per un eccesso di brama da docufiction (sebbene patinata) -, scegliere dei set naturali a Scampia, a Napoli, e anche altrove. Ecco, se c’è una cosa in grado di sollecitare una riflessione, sono proprio quei posti ripresi nella loro insindacabile negligenza (e bellezza), nella loro sconvolgente disumanità (e bellezza). Le vele, le colate di cemento abusive, gli sparuti grattacieli di Napoli, riescono a scardinare la sostanziale artificiosità del plot. La domanda però resta: “Gomorra la serie” o “Gomorra di serie”?

@LuRicci74

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