«L’opera si apre con la testa di Pompeo deposta ai piedi di Giulio Cesare che qualche anno dopo verrà ucciso davanti alla statua del suo amico e rivale. Subendo anche lui congiura e tradimento. Ma l’intricata vicenda di potere e seduzione che prende le mosse da questo esordio sanguinario non ci restituisce il ritratto di un eroe, di un condottiero che ha conquistato il mondo, bensì quello di un uomo stanco sul quale incombono i presentimenti di una fine, della morte».
Il regista Damiano Michieletto (che firmerà il cartellone del Caracalla Festival nell'estate del Giubileo 2025 e metterà in scena il musical West Side Story) presenta il suo «uomo solo, un po’ goffo, che non ne combina una di giusta»: il Giulio Cesare in Egitto, il capolavoro di Händel che ieri, 13 ottore, è stato accolto da lunghi applausi, all’Opera di Roma (repliche fino al 21 ottobre).
La leggendaria storia d’amore tra Cesare e Cleopatra come viene raccontata?
«Tra di loro non si consuma una storia d’amore, ma un dramma sul destino. Sono due persone infatuate, alla vigilia di una fine che entrambi intuiscono».
Però Cesare perde la testa per lei. O no?
«In verità Cesare s’innamora di una donna semplice, umile, una servetta. All’inizio non ha idea che si tratti di Cleopatra. Probabilmente non cerca un amore: come tanti personaggi politici oppressi dal potere, in un rapporto con una donna cercano leggerezza, frivolezza, evasione dalle responsabilità».
Eppure Cleopatra passa alla storia come la regina della seduzione...
«È una donna in crisi di identità. Vive profondamente il suo conflitto con il fratello Tolomeo. Entrambi cercano di portare Cesare dalla propria parte. Tolomeo con mosse politiche, Cleopatra con la sensualità. Ma nelle arie che canta confessa la sua fragilità. Cambia continuamente parrucca, vestiti, identità. Vuole regnare, ma sente che tutto è effimero».
A proposito di vestiti: in che epoca siamo?
«In un tempo contemporaneo, simbolico. La scena è una scatola bianca che poi si riempie di fili rossi, i fili del fato, quelli che tessono le Parche, leitmotiv dello spettacolo. Con il loro filo rosso, della vita e della morte, trasformano il palco in una ragnatela. E nella trappola dove finisce Cesare. La premonizione si manifesta con la comparsa dei congiurati. Solo loro avranno le toghe».
Un Giulio Cesare frivolo in amore, ma oppresso da premonizioni: su cosa verte la sua riflessione?
«Il centro del lavoro è una meditazione della morte. Giulio Cesare sembra uno spettatore. L’azione viene condotta dagli altri: Tolomeo uccide, Sesto cerca vendetta, Cleopatra seduce. Lui ha già fatto tutto, ha scritto il De bello Gallico, ha conquistato il mondo. Ora fa i conti con la consapevolezza di un imminente tramonto».
In questo allestimento nei panni di Giulio Cesare c’è un uomo, il controtenore Raffaele Pe. A Parigi era interpretato da una donna, a Lipsia da un uomo, mentre nei panni di Sesto c’era una cantante. La musica barocca ha qualcosa da suggerire al tema della fluidità di genere?
«Queste opere vennero composte per essere cantate da uomini castrati con la “voce degli angeli”. Oggi si fanno scelte legate all’interprete. Il tema dell’identificazione uomo-donna sulla scena non è mai esistito. Il palcoscenico ha sempre giocato sulla finzione. Il teatro shakespeariano era fatto tutto da uomini. La verità è che non cambia niente».