Rosella Postorino: «Il dramma delle mie assaggiatrici, complici indirette del male»

Rosella Postorino: «Il dramma delle mie assaggiatrici, complici indirette del male»
di Andrea Velardi
8 Minuti di Lettura
Domenica 16 Settembre 2018, 19:28 - Ultimo aggiornamento: 20:06

«Il mio romanzo ci fa riflettere sul grande tema della nostra responsabilità storica e della nostra possibile collusione col male». Così Rosella Postorino rilancia il suo romanzo Le assaggiatrici (Feltrinelli), all’indomani dalla vittoria del Premio Campiello, promosso dagli Industriali del Veneto. Durante la serata tenutasi ieri al Teatro La Fenice la Giuria dei Trecento Lettori anonimi ha preferito questo romanzo dal soggetto molto radicato nell’immaginario collettivo, attribuendogli ben 167 voti. Un successo ancora più clamoroso e interessante visto che ha ribaltato il quinto posto in cui si era qualificata nella sequenza stabilita dalla Giuria dei Letterati presieduta dall’ex magistrato Carlo Nordio, che ha più volte sottolineato come questa sia composta da «professionisti del settore molto qualificati» e abbia lavorato in una atmosfera di grande «dibattito, elasticità, indipendenza». Il Campiello ci ha abituati all’eventualità di questi ribaltamenti con la sua formula doppia che prevede un primo verdetto più accademico e un secondo verdetto più popolare, un ibrido che piace, anche perché quel che conta è il risultato finale, a parte tutte le riflessioni critiche che possiamo e dobbiamo fare sulla esemplarità dei libri candidati e vincitori.
 
Resta il fatto che il soggetto del libro di Rosella Postorino è accattivante ed è piaciuto. Dopo 56 anni il tema del nazismo e della guerra torna a vincere il Premio Campiello. Dal viaggio del deportato ebreo verso Torino dopo l'abbandono di Auschwitz de La tregua, grande vibrante autobiografico capolavoro di Primo Levi, seguito di Se questo è un uomo, vincitore nella prima edizione del 1963, siamo passati alla vicenda di Rosa Sauer, ispirata alla storia vera di Margot Wölk, ambientata nell’autunno del 1943 a Gross Partsch, villaggio vicino alla Tana del Lupo, al quartier generale di Rastenburg, nascondiglio di Hitler nella foresta che gli aerei sovietici non avevano mai localizzato e  dove alcune donne, per ordine delle SS, salvaguardavano la vita di un paranoico Führer assaggiandone, a rischio della vita, i pasti, nella mensa forzata di Krausendorf. «Il cibo diventa una metafora. Noi per sopravvivere dobbiamo assaggiare il mondo e questo può voler dire morire».
 
Il romanzo fa emergere tematiche filosofiche ed etiche molto forti e apre il dibattito sul problema dell’essere vittima e dell’essere connivente nell’epoca del totalitarismo nazista e della follia hitleriana, riproponendo così anche il tema più vasto delle colpe del popolo germanico presente anche in Gunter Grass e in parte della letteratura tedesca. Postorino ricorda come «Margot Wölk abbia messo tantissimo tempo prima di parlare del suo passato a 96 anni» e parla delle assaggiatrici come «delle donne vittime e anche colpevoli perché, con il loro prestarsi a prevenire possibili avvelenamenti al Führer hanno contribuito a mantenere vivo un uomo efferato». Ripensando all’empatia con cui vengono tratteggiate le protagoniste, la dolcezza e lo smarrimento di Rosa, riflettiamo sul fatto che questo giudizio sembra riecheggiare una tendenza alla criminalizzazione diffusa in vari ambiti della nostra epoca, in cui, anche sull’onda della foga massmediatica, si assiste a una incapacità di contestualizzare e relativizzare storicamente e psicologicamente le azioni e gli eventi umani sapendo riconoscere contesti e attenuanti.
 
Rosa Sauer si trasferisce da Berlino a Gross Partsch, nella Prussia orientale per sfuggire alla guerra presso la famiglia del marito Gregor di 34 anni. Mentre vive con i suoceri Herta e Joseph, si ritrova improvvisamente e malauguratamente cooptata dalle sagome scure delle SS nella Tana del Lupo. Quando Gregor risulta disperso nel dicembre del 1943 Rosa ha un schock tale che non riesce a uscire di casa, ma le SS non la prelevano senza alcuna pietà e lei esclama rassegnata e afflitta: «Non merito nulla, a parte ciò che faccio: mangiare il cibo di Hitler, mangiare per la Germania, non perché la ami, e neanche per paura. Mangio il cibo di Hitler perché è questo che merito, che sono». Quasi comprendendo fino in fondo l’entità del dramma di questa implicazione forzata, ma sostanziale nella sopravvivenza di Hitler e del regime totalitario che stava devastando l’Europa.

Postorino articola in profondità la portata di questa tremenda e controversa collusione con il Male che percorre tutto il romanzo: «Le assaggiatrici racconta qualcosa di cui non si è mai parlato, qualcosa di specifico che riguarda le donne che salvarono Hitler prestando la loro opera, ma anche qualcosa di generale che ha a che fare con l’umanità intera. Mi riferisco al momento in cui idee astratte, schemi teorici del convivere umano, diventano più importanti della singola vita umana. Il romanzo cerca di capire la sopraffazione dentro cui si svolgono i destini di Rosa e delle altre, scava nelle pieghe della esistenza in carne e ossa, ma proprio per questo indaga l’opera dell’assaggiare i pasti del Führer alla luce delle conseguenze anche indirette e cioè il fatto che alla mensa di Krausendorf si salvaguardava la sopravvivenza del Male. Le assaggiatrici - prosegue Postorino - avevano anche il privilegio di sfamarsi e sopravvivere esse stesse in un momento tremendo. Durante il pasto piangevano, al termine rimanevano un'ora sotto osservazione, ma anche Margot Wölk non poteva fare non di ricordare quanto quei piatti fossero gustosi e come non ne avesse mai mangiati in tempo di guerra. Per questo io reinterpreto il loro ruolo con Karl Jaspers che parla di una colpa metafisica, del fatto di sopravvivere mentre altri soccombono». 
 
Questa prospettiva eleva il piano del discorso, lo traspone in una dimensione che non è propriamente quella della condanna, della colpevolizzazione per un’opera compiuta in modo coatto, nella sopraffazione, e si può quindi distinguere una doppia prospettiva metafisica e psicologica, in cui si parla di colpa in modo molto diverso. «Da questo punto di vista - continua la vincitrice del Campiello - il mio romanzo ha a che fare con quella dimensione incarnata ed esistenziale, non astratta, collettiva, disumana come quella del totalitarismo. La ricerca storica di tre anni e mezzo che ha preceduto la fase della stesura mi ha portato a rivivere le vite delle mie protagoniste, a immaginare la filastrocca che Rosa sentiva cantare da bambina, a conoscere la paranoia e il regime alimentare di Hitler, il fatto che aveva escogitato un sistema per non farsi avvelenare ma la sua dieta lo intossicava costringendolo a prendere fino a sedici pillole di Mutaflor al giorno, a visitare in Polonia, a Gross-Partsch, che oggi si chiama Parcz, le macerie della Tana del Lupo. Ne viene fuori un romanzo psicologico - argomenta ancora Postorino - dove la donna è al contempo vittima e complice del regime di Hitler, non ha la volontà di compiere il male, ma di fatto mantiene in vita il più grande criminale del Novecento. E’ vero che l’assaggiatrice vive in uno stato di coercizione di prigionia, è una sorta di cavia, di schiava, però è una schiava in un tempo in cui non ha più alibi e io volevo rendere conto anche degli aspetti collusivi di una sudditanza a quella divinità pervasiva e incombente che era comunque Hitler per tutti i tedeschi».
 
In effetti il romanzo si costruisce tutto sulle prospettive umane e sentimentali esterne e interne alla mensa di Krausendorf: quella della famiglia di Gregor a Gross Partsch, quella del fronte da cui invia le lettere e  in cui poi risulta disperso, quella dell’ambiente chiuso e freddo della mensa forzata, dove si intrecciano affinità sottili e rivalità sotterranee fra le giovani donne (Leni, Heike Augustine, la rigida e magnetica Elfriede) e la straniera, la “Berlinese” Rosa; dove inoltre  nella primavera del ’44, arriva il terribile tenente Ziegler e instaura un clima di terrore, col quale Rosa crea un legame inaudito, subendone il fascino che però non è un vero innamoramento, ma una relazione di attaccamento in una situazione di sopravvivenza, un tentativo di scampare alla paura e al pericolo.

Postorino è d’accordo e il discorso si riallaccia così all’esperienza reale della ispiratrice di questo romanzo Margot Wölk. È riuscita a conoscerla? «Le ho scritto, ma lei è morta mentre la mia lettera stava partendo - risponde Postorino -. Sono caduta in depressione, piangendo per un mese, quando ho saputo che non ero riuscita a raggiungere, anche se per poco, questa donna che forse chiedeva dentro di sé di rivelare i suoi segreti. Ho ripensato al suo dramma, a lei reclusa nella sua dimora ormai da anni e nel suo silenzio, nella sua omissione. Quando sono arrivata a casa sua, la sua dirimpettaia mi ha detto che Margot era simpatica socievole, ma di quel passato non voleva parlare, era qualcosa di indicibile di inconfessabile, che appartiene alla tragedia del popolo tedesco. Rosa Saure cita nel libro una frase emblematica di Christa Wolf: "Non esiste nessun luogo in cui si sia taciuto così abissalmente come nelle famiglie tedesche". Nella mia ricerca storica ho voluto raccontare questa tragedia, attraverso l’esperienza individuale come accade nel Diario di Anna Frank che era il mio libro preferito da giovane. E legarla a una tragedia più grande quella di essere programmati per sopravvivere e dover morire, che spiega anche la resa al male delle assaggiatrici».
 
Al di là dai giudizi diversi sul libro dei letterati e del popolo dei votanti anonimi che l’ha portata al successo, a vincere il Campiello è un libro che ha un soggetto molto accattivante dal quale si potrebbe trarre un film. Postorino ci rivela che «la casa di produzione Lumiere ha opzionato il libro per una sceneggiatura. Nei panni di Rosa, vedrei bene Alicia Vikander, l'attrice rivelazione di The Danish Girl perché è bionda e ha un viso paffuto come lo aveva Margot Wölk. Sono pronta a  collaborare e aprirmi a questa nuova esperienza, da aggiungere ai tanti anni di lavoro da editor delle Einaudi per cui lavoro ogni giorni senza sosta. Riservando al week end i giorni per la scrittura dei miei libri».
 
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA