Cuccia e i segreti del capitalismo, La Malfa nel suo nuovo libro descrive la figura del banchiere

Enrico Cuccia
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Domenica 8 Giugno 2014, 18:31 - Ultimo aggiornamento: 9 Giugno, 11:49
Forse qualcuno in Rai ci avr gi pensato, ma sicuramente la biografia di Enrico Cuccia, cos intrecciata alla storia del secondo Novecento italiano, meriterebbe una fiction televisiva. E alla già corposa bibliografia sul personaggio adesso bisogna aggiungere il documentato libro di Giorgio La Malfa Cuccia e il segreto di Mediobanca, edizioni Feltrinelli, sicuramente partigiano nella sua narrazione, a favore di Cuccia ovviamente, ma non per questo meno importante. Anzi: anche grazie a una ricca documentazione, comprese alcune carte familiari, e alla consuetudine di un lungo rapporto diretto, tra collaborazione professionale ed amicizia, La Malfa ci racconta a tutto tondo il dominus di Mediobanca.

Chi è stato Cuccia? Se dovessimo scegliere una definizione, potremmo definirlo uno straordinario, per autorevolezza e competenza, “regolatore di sistema”, di un Paese lanciato, dopo il disastro di due guerre mondiali e di una buia dittatura, sulla pista del capitalismo ancorato alla democrazia. Cuccia ha fatto parte di quella élite, laica e cattolica, nomi come Alberto Beneduce, Raffaele Mattioli, Donato Menichella, Sergio Paronetto e Pasquale Saraceno, che si è posta il problema di come ricostruire lo Stato e le sue funzioni, le leve dell’economia e della politica, coniugandole all’iniziativa privata e al ruolo dei partiti. In questa miscela di tecnocrazia e di appartenenza, Cuccia faceva parte della sponda azionista, minoritaria ma molto influente nei meccanismi del potere, e con questo abito è sceso in campo da protagonista della ricostruzione. Dal primo momento.



GLI ALBORI

Siamo tra la fine del 1944 e gli inizi del 1945, quando Cuccia accompagna il suo maestro, Mattioli, a Washington per sancire una sorta di spartizione dei ruoli e del potere nell’Italia del dopoguerra, sorvegliata e finanziata dagli americani. Il controllo della politica ai partiti, innanzitutto alla Dc di Alcide De Gasperi, il territorio fragile dell’economia finanziaria, di quel capitalismo italiano senza capitali, presidiato al Nord dal club dei banchieri. Mediobanca nasce dentro questo schema, sul quale gli storici discuteranno a lungo, grazie alla spinta propulsiva di Mattioli, con la sua cassaforte della Banca Commerciale, spalleggiato da Cuccia, cresciuto nell’Iri, altro punto nevralgico del sistema, e con una curva professionale in Banca d’Italia a Londra. E in poco tempo i ruoli dei due personaggi si invertiranno, con Cuccia che di fatto si impadronisce di Mediobanca, fino a una rottura con Mattioli che gli rimprovera uno stravolgimento della sua funzione. «Nell’interesse di chi è amministrata Mediobanca?» scrive Mattioli a Cuccia, dopo un pesante scambio di opinioni di persona. Qui il racconto di La Malfa tende a minimizzare il conflitto tra i due, fino ad archiviarlo come un arrabbiatura di Mattioli che aveva chiesto e non ottenuto da Cuccia un sostegno finanziario alla casa editrice Einaudi: ma lasciando sempre agli storici la portata e i contorni dello scontro, resta il fatto che la Mediobanca nelle mani di Cuccia è diventata molto più di una banca d’affari, controllata da tre banche pubbliche definite di “interesse nazionale”. E’ stata per oltre mezzo secolo il crocevia del capitalismo italiano, visto dai piani alti. Dove Cuccia decideva, orientava, consigliava, senza avere mai un diretto interesse personale e senza coltivare, e ciò può sembrare un paradosso, un’opinione particolarmente favorevole della grandi famiglie che lui proteggeva a qualsiasi costo. Dalla Fiat degli Agnelli al gruppo Pirelli, dalla Montedison alle Generali, dall’Olivetti alla Fondiaria: tutto passava per la sua regìa e per il suo impietoso giudizio. Un esempio? Cesare Romiti, che fu messo da Cuccia alla guida della Fiat, ha raccontato la seguente opinione del patron di Mediobanca su Gianni Agnelli: «Non potrebbe gestire neanche una tabaccheria». Forte di un potere assoluto e di una regola extra-mercato («le azioni si pesano e non contano») Cuccia ha impresso il suo modello di capitalismo italiano.

Agli antipodi della public company anglosassone, che Cuccia definiva “un mito populista”, più vicino allo schema dell’economia renana, ma con una fortissima variabile nazionale. Quella dei noccioli duri attorno ai quali costruire e intrecciare il controllo delle società, dei patti di sindacato per blindarli, di una sorta di regìa che doveva supplire alle debolezze dell’imprenditoria privata, mentre il meglio della grande industria in quegli anni arrivava dalle aziende controllate dallo Stato attraverso Iri ed Eni. Il modello di Cuccia doveva inoltre mettere al riparo Mediobanca, con tutta la sua trama e le sue connessioni, dalle scorribande dei parvenu, compresi quelli al confine della criminalità come Michele Sindona, e dalle pressioni della politica romana. La Malfa racconta, nome per nome, i rapporti di Cuccia con i politici italiani, e dedica molte pagine agli scontri pesantissimi di Cuccia con Romano Prodi in due occasioni: la privatizzazione di Mediobanca, l’ultimo atto forte della regia di Cuccia, e la battaglia attorno alle tre banche di sistema (Comit, Credito Italiano e Banca di Roma) che controllavano Mediobanca. Tra le tante frasi celebri di Cuccia che ci sono arrivate nonostante la cifra quasi religiosa della sua riservatezza, c’è questa che riguarda proprio la sua creatura: «È caduto l’impero romano, perché non dovrebbe cadere Mediobanca?».



CLASSE DIRIGENTE

Oggi Mediobanca continua a rappresentare un punto d’eccellenza nonostante qualche episodio di appannamento; certo non è quella di Cuccia con la sua funzione di “regolatore di sistema”. Intanto il capitalismo italiano sta liquidando patti di sindacato e nocciolini duri (che consentivano di controllare grandi aziende tirando fuori spiccioli di lire e poi di euro), trovandosi con le spalle al muro di fronte alle sue debolezze genetiche - da qui lo shopping a vele spiegate dei gruppi stranieri - e orfano di un punto di riferimento che lo proteggeva. Come è orfana la classe dirigente italiana di personaggi, che con tutti i loro limiti umani, possano avere qualcosa della caratura di Enrico Cuccia.
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