La lezione di Bufalino: a 20 anni dalla morte dello scrittore ci si interroga sul perché
del lungo silenzio attorno alle sue opere

La lezione di Bufalino: a 20 anni dalla morte dello scrittore ci si interroga sul perché del lungo silenzio attorno alle sue opere
di Matteo Collura
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Domenica 5 Giugno 2016, 00:59 - Ultimo aggiornamento: 6 Giugno, 16:58
Il 14 giugno prossimo sarà il ventesimo anniversario della scomparsa di Gesualdo Bufalino, forse lo scrittore più velocemente dimenticato del nostro Novecento. 
E non soltanto dimenticato dai lettori, ma anche e soprattutto dai critici che mai, da alcuni anni a questa parte, gli hanno dedicato una citazione, uno straccio di richiamo. Come se non fosse mai esistito. 
Eppure, quando alla non più verde età di sessantuno anni esordì con Diceria dell’untore (1981), ebbe immediato e chiassoso successo, coronato dal Premio Campiello, allora un riconoscimento ambito; e sette anni dopo si aggiudicò lo “Strega” con il romanzo Le menzogne della notte.

VISIBILITÀ
Perché scompare così uno scrittore che durante i quindici anni di visibilità letteraria (quelli in cui produsse romanzi, saggi, poesie, aforismi e inarrivabili elzeviri) fu assediato dai giornalisti culturali, spediti nella sua Comiso per intervistarlo? Certo, la fisiologia della memoria, che, con rare eccezioni, trascina nella dimenticanza ogni essere venuto sulla terra, può essere una spiegazione, ma non basta, perché stiamo parlando di uno scrittore il cui pensiero, quando era in vita, davvero dilagava nei dibattiti culturali.
Probabilmente una ragione c’è, ed è dovuta al fatto che Bufalino è stato lo scrittore siciliano meno siciliano di tutti gli altri. 

Che se ne fanno, oggi, i lettori di uno scrittore siciliano che non ha avuto la Sicilia come sua esclusiva materia d’ispirazione? Che non ha fatto sfoggio di rassicuranti (per i lettori di altre regioni) luoghi comuni siciliani? Che si è guardato bene dall’esibire siculi teatrini folcloristici?
Mi è capitato di intervistarlo più volte, di chiacchierare a lungo con lui, e in alcune occasioni in compagnia di Leonardo Sciascia. Per questo posso dire che forse c’è qualcosa d’altro e di più sottile in questo sprofondare nell’oblio di tutto quanto riguarda Gesualdo Bufalino. 

PARTECIPAZIONE
Negli scrittori siciliani più importanti – Verga, De Roberto, Pirandello, Brancati, Tomasi di Lampedusa, Sciascia (Vittorini è un caso a parte) – c’è sempre una partecipazione emotiva, oltre che intellettuale ed etica, alle vicende siciliane variamente raccontate. Una partecipazione emotiva che in qualche modo, anche se in maniera differente, incide sullo stile. In Bufalino questo non avviene. Mai. E quando la Sicilia nei suoi scritti c’è, è come se fosse “tradotta”. Un esempio: leggere Bufalino che scrive di Sicilia è come leggere tradotto in italiano uno scrittore irlandese che scrive d’Irlanda.
Bufalino visse in Sicilia, ma non la visse. Per lui la Sicilia era il buco di mondo dove abitava, capace tuttavia di rappresentare il mondo intero.
 
MONDO
Erano i libri, tutto il suo mondo; e quelli non se li fece mai mancare, al punto che quando sentì il bisogno di leggere I fiori del male di Baudelaire nella lingua originale, non avendone a disposizione una copia in edizione francese, tradusse da sé il libro dall’italiano al francese.
Era un professore di Lettere, Bufalino; all’antica, vale a dire con quel rigore umanistico e pedagogico che nella sua generazione era un coltivato residuo dell’Ottocento. Sciascia, al contrario, era un maestro elementare del suo tempo, un intellettuale, cioè, che vide nell’insegnamento un’occasione di riscatto, un modo di sottrarre alla miseria in cui vivevano i suoi scolari. Questo forse spiega la differenza tra i due scrittori, molto amici tra loro.
 
IMPEGNO
Ho ricordato altre volte, ma merita di essere qui riportato un momento di conversazione tra Bufalino e Sciascia. 
«Voglio confessarti una cosa», gli disse una volta lo scrittore di Comiso. «Invidio la tua forza civile, il tuo impegno sociale, la tua capacità di servirti della parola scritta per persuadere o dissuadere. Io invece non so fare scrittura morale».
«L’importante è di non farne di immorale», fu la risposta di Sciascia. Ho sempre pensato che Bufalino volle fargli quella domanda proprio per dare modo al suo interlocutore di dare quella risposta. 
Di Bufalino restano i due volumi delle Opere (Bompiani 1992, 2007) e il bel saggio di Ella Imbalzano sul lascito letterario dello scrittore (Di cenere e d’oro, Bompiani 2008). 
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