“Er Forchetta”, la solitudine prima del Covid nelle fotografie di Zhanna Stankovych

Nella foto di Zhanna Stankovych, a destra Piero Patriarca detto "Er Forchetta"
di Leonardo Jattarelli
5 Minuti di Lettura
Lunedì 1 Febbraio 2021, 12:50

«Tre anni fa ho fatto un lavoro fotografico sul quartiere della Garbatella, che si è rivelato una grande esperienza soprattutto umana oltre che professionale. Sono felice perché le foto che ho fatto sono state apprezzate, soprattutto dai romani. E recentemente sono state esposte addirittura in Russia, in Sergiev Possad nella regione di Mosca. Proprio in questa occasione ho conosciuto Piero, un uomo diverso, con una presenza contradditoria, colto, brillante, ma nello stesso tempo disagiato e solo. Mi sono fermata con lui un pò di più di come fanno gli altri, quelli che gli passano davanti, correndo verso i treni della metro». 
Così inizia la conversazione con Zhanna Stankovych, ucraina da molti anni a Roma, straordinaria fotografa “dell’anima” che poco più di due anni fa, quando ancora non eravamo stati isolati dalla pandemia, conosce Piero Patriarca, detto “Er Forchetta”, un ex detenuto senza fissa dimora che ha fatto di ogni angolo di Roma la sua casa. Soprattutto nei territori periferici e ad Ostia, davanti al mare che ama.

Pochi giorni fa, all’età di 70 anni, “Er Forchetta” se n’è andato per sempre e Zhanna Stankovych, che ha seguito per un anno e mezzo con la macchina fotografica la sua vita, i suoi pensieri, le riflessioni e soprattutto la sua solitudine, inizia a parlarne ora e ad omaggiarne la memoria con una lunga serie di scatti scarni ma vissuti, in un bianco e nero che congiunge la faccia di Piero a quelle di tanti “vagabondi” di borgata pasoliniani. Forse diventeranno un libro o forse Zhanna Stankovych organizzerà una mostra: il pulmino ferrovecchio nel quale dormiva e raccoglieva i tanti libri destinati alle bancarelle, i ritagli di giornali tra i quali quello che aveva creato lui con alcuni amici: un collage di annotazioni, pensieri, filosofia di uomo solo segnato dalla vita.

Perché proprio lui?
«Volevo capire cosa vuol dire essere un uomo di strada, come si arriva ad esserlo e se la sua era una prigione oppure il massimo grado di libertà. Piero Patriarca era un ex carcerato che ha voluto rifarsi una vita, ma non ci è riuscito, o lo ha fatto solo in parte. Ce ne sono tanti altri come lui, e Piero ne era cosciente. Persone disagiate in cerca invano di un lavoro, di compagnia». 
Come l’ha accolta?
«All’inizio con diffidenza. Non capiva perché tanto interesse per una persona come lui e soprattutto come era possibile che una solitudine potesse improvvisamente essere illuminata da una condivisione, da un avvicinamento. Poi, col tempo, siamo diventati molto amici».

Cosa ha capito da questo incontro?
«Intanto che non è così scontato uscire dal carcere e riuscire a tornare alla normalità. Non mi ero  mai posta il problema delle persone che, una volta fuori di prigione, non riescono a ritrovarsi nella società; e allora preferiscono tornare in carcere». 
Er Forchetta le ha spiegato qualcosa?
«Ho capito qualcosa in più grazie a quell’anno e mezzo che ho frequentato Piero Patriarca. Un ex-detenuto, dopo aver scontato la pena, dovrebbe potersi reinserire nella società. Ma quasi mai succede. Le persone, deluse, non trovano più il posto, non lo trovano perché spesso non c’è. E ritornano nel mondo criminale, perché in quello nostro si sentono emarginate». 
Quante volte è accaduto a lui?
«Piero è stato in carcere quattro volte, ma poi ha voluto cambiare vita e per sopravvivere se l’è dovuto inventare, il lavoro. Ha aperto una comunità sotto il cielo, senza alcun aiuto, autofinanziandosi».
Fonda una associazione che prende il suo nome, inizia a vendere libri usati in giro per Roma e cerca di accogliere amici e gente di strada che ha bisogno di condividere una parola, un gesto, un piccolo pranzo e una cena...
«In una città come Roma ci sono tanti locali che chiudono, persone che muoiono.

Allora Er Forchetta diventa un punto di riferimento. Chiamano lui, e lui arriva. Svuota, sgombera cantine e porta via quel che ha fatto il suo tempo, che non serve più. Divide con i suoi collaboratori i compensi che riceve, garantendo loro un pasto e un bicchiere di vino». 

L’Associazione La Forchetta nacque intorno al 2000: «I primi tempi – raccontava Piero al giornalista Giulio Mancini – sono stati veramente duri e difficili. Da solo, ho iniziato a trasportare i libri con un carrello della spesa, ho aperto il mio primo umile banco ad Ostia chiedendo in regalo i libri usati ai sacerdoti e alle persone che conoscevo. I miei primi volantini erano scritti a penna e distribuiti qua e là. Poi, pian piano qualcuno ha iniziato a seguirmi, qualcuno che non sapeva come fare per mangiare e così ci sono stati i primi piccoli guadagni. In seguito abbiamo aperto qualche altro banco a Roma dove si impegnavano barboni, ex alcolisti ed ex detenuti. Un giorno abbiamo ricevuto in regalo un vecchio furgone col quale abbiamo iniziato a fare piccoli trasporti, pulizie di cantine e piccoli restauri di appartamenti. Dopo alcuni anni, abbiamo deciso di costituire un’associazione. Siamo in tanti, facciamo riunioni, organizziamo le giornate di lavoro, accogliamo tutti, uomini, donne, anziani, gente che si sente sola».

Stampava il suo giornalino e lei l’ha immortalato con la sua macchina fotografica...
«Quando calava la notte, lui rimaneva da solo nel suo furgone, e scriveva in stampatello testi teatrali, cose utopiche, fino ad un certo punto. Parlava dell’indifferenza che regna nella nostra società». Zhanna Stankovyc è andata a ritrarlo nei particolari, lì dove spesso vengono custodite le verità di ognuno di noi. Er Forchetta rimarrà così, vivo per sempre.

La fotografa Zhanna Stankovych 

© RIPRODUZIONE RISERVATA