Civil War, il film che divide l'America al voto

Nella pellicola con Kirsten Dunst gli Usa sconvolti dalla guerra civile. Vola al box office a sette mesi dalle elezioni

Civil War, il film che divide l'America al voto
di Ilaria Ravarino
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Martedì 16 Aprile 2024, 07:05

Il film Civil War è un manifesto contro Donald Trump. Di più: è un film “predittivo”, con cui i democratici americani stanno plagiando le menti del pubblico per prepararlo a una dittatura prossima ventura. Oppure no, Civil War è un film di destra. Così repubblicano che nei titoli di coda, tra i ringraziamenti, si cita Helen Lewis, la giornalista nota per le sue posizioni omofobe, e in una sequenza compare il controverso blogger conservatore Andy Ngo. Tutto vero, tutto ferocemente dibattuto da settimane sui social. Quel che è certo è che, ovunque lo si voglia collocare nell'orizzonte politico statunitense, Civil War di Alex Garland, nei nostri cinema dal 18, è un film che incassa: 25,7 milioni all'apertura negli Stati Uniti per una pellicola costata 50 milioni di dollari, diventata il maggior risultato al box office dello studio indipendente A24 (che dai sette Oscar di Everything Everywhere All at Once non sbaglia un colpo).

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IL FUTURO

Scritto nel 2020 dal britannico Garland (28 giorni dopo) un anno prima dell’attacco a Capitol Hill (l'assalto al Campidoglio degli Stati Uniti da parte dei seguaci di Trump), Civil War è uscito al cinema a sette mesi dalle presidenziali americane, ed è diventato un caso prima ancora di arrivare in sala, piombando come un oggetto non identificato nel pieno della polarizzatissima contesa Biden-Trump.

Ambientato in un futuro distopico, Civil War dà corpo al più grande incubo americano, ovvero: la disintegrazione dell'unità nazionale.

IL RIFERIMENTO

Inizia con un Presidente democratico (l'attore Nick Offerman) asserragliato nella Casa Bianca, mentre il resto del paese si fa la guerra diviso in fazioni: Stati Lealisti, Forze insurrezionali di Texas e California (nella realtà i due stati sono politicamente agli antipodi), alleanza dei secessionisti della Florida e Nuovo Esercito Popolare. Quale scintilla abbia fatto divampare il conflitto, Garland non lo spiega: troviamo l’America già in piena guerra civile, con un presidente che ha sciolto l’FBI, non rilascia interviste da un anno e si è auto-nominato per un terzo mandato. Non proprio uno stinco di santo. Un riferimento a Trump? Ha provato a calmare gli animi lo stesso regista, spiegando che il film «è nato quattro anni fa, da premesse che sono le stesse di oggi. Parla di polarizzazione, di divisioni, di come la politica populista conduca all'estremismo, delle conseguenze dell'estremismo stesso e di quale sia il ruolo della stampa in tutto questo». Gli americani di Garland sono smarriti, senza altra identità che l’odio. «Ci deve essere un errore, siamo americani» dice un giornalista nel film, cercando di rabbonire un uomo armato (Jesse Plemons), che tiene lui e i compagni sotto tiro. «Ah sì?», risponde quello. «E che americani siete?».

LA STAMPA

Figlio di un vignettista, e cresciuto in una famiglia di giornalisti, Garland sceglie come protagonisti del film proprio quattro reporter - la famosa fotografa Lee Smith (Kirsten Dunst), i colleghi Joel (Wagner Moura), Sammy (Stephen McKinley Henderson) e la giovane idealista Jessie (Cailee Spaeny) - che si mettono in viaggio da New York a Washington con un obiettivo: fare l’ultima intervista al Presidente prima che venga deposto dagli insorti. «Negli ultimi tempi il buon giornalismo ha perso colpi, danneggiato “dall’esterno” dai social e “dall’interno” dalla scelta di grandi organizzazioni di media di schierarsi e diventare parziali. Io volevo fare un film sui giornalisti eroi, quelli che servono a una democrazia, così come alle persone servono i medici». 

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