Antony Di Francesco, arriva da Ostia il fenomeno delle candid camera. E ha solo 16 anni

Antony Di Francesco
di Carmine Castoro
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Martedì 6 Maggio 2014, 18:02 - Ultimo aggiornamento: 18:16
Non chiedete ad Antony Di Francesco, sedici anni di Ostia, chi fosse Nanni Loy; con totale ingenuit ammette di non averne mai sentito parlare. Non è certo un mito della sua memoria, forgiata con i social network e i reality show, il volto imperturbabile del popolare regista e attore sardo che negli anni ’60 e ’70 furoreggiò in un’Italia trasmessa ancora in bianco e nero con le prime telecamere nascoste fra specchiere di bar e scompartimenti ferroviari.



Eppure Antony, uno degli ultimi e più travolgenti rappresentanti di quella generazione di giovani che, alle prevedibili aspirazioni nel campo dello spettacolo ha aggiunto anche inventiva, testi, idee originali e provocazioni creative, chiama le sue candid camera “esperimenti sociali” perché, come illustra sorridente nella videointervista, ci tiene più che a far arrabbiare le persone o a strappare loro un sorriso alla fine del crudele giochino, a vedere come e perché si comportano in una certa maniera e se dietro l’immagine c’è veramente un cuore popolare, un’intelligenza sociale che riesce ad emergere.



Surreale e leggermente trasformista alla Willwoosh, faccia di gomma come Jim Carrey, senza pietà e crudele alla Frank Matano, sceneggiatore di se stesso come un comico di Zelig, Antony usa i new media: handycam, microfonini, youtube, canali tematici personalizzati, e le sue gag in movimento, fra parchi piazze e strade di Roma, raccolgono costantemente migliaia di contatti e un pubblico di aficionados che comincia pure a riconoscerlo non appena fa proposte stravaganti on the road a ignari adolescenti o persone di una certa età.



Rubare il posto sulle panchine con una scusa, implorare cellulari alle “pischelle”, piangere davanti ai passanti, prenderli per vip e vedere se cedono alla vanità di firmare autografi da perfetti sconosciuti: sono i must di Antony, pezzi molto gradevoli, alcuni esilaranti, di un modo di fare tv autoprodotta con la forza di una scoppiettante trasgressione che, se mira pure a far riflettere un pochino, tanto meglio. Il fine è andare alla corte della De Filippi, diventare un attore, o rimanere un disintegratore-funny di certezze, timidezze e luoghi comuni? Ai fan dell’ultimo giovane tele-insider di Ostia l’ardua sentenza. E a lui la “mission impossible” di essere all’altezza di un talento che non per forza deve seguire il Circus dei grandi show massmediatici, ma, perché no?, i ruscelli di sane risate che risollevano le sorti di una giornata se al pc, in uno short-movie, vediamo qualcuno che cede alle stesse debolezze che renderanno “fantozziani” noialtri fra qualche giorno, in una normalissima via della Capitale.



Antony è, insomma, la dimostrazione di un fenomeno di massa sempre più dilagante, per certi versi accattivante: se non si superano i casting di note trasmissioni che regalano popolarità a basso costo e gonfiano il portafogli, e se non si ha tanta voglia di studiare e raggiungere titoli universitari, allora tanto meglio crearsi la fama del piccolo schermo nel garage, con una combriccola di amici “folli” come te, e diventare “personaggio” per cose simpatiche e di rapido sviluppo virale sulla Rete.



E le candid si prestano benissimo come tv cheap, fatta in casa, con platee di “cliccatori” che i grossi format Rai, Mediaset e Sky spesso si sognano.



In principio fu “Specchio Segreto” di Nanni Loy a metà degli anni ’60, con il popolare attore sardo che, nei panni di un distinto signore con cappello e pipa, chiedeva gentilmente di “fare la zuppetta” nel bicchiere del vicino al bancone di un bar. Si avvicinava deciso e circospetto al cappuccino, al vermouth, o alla tazza di tè dell’inconsapevole avventore e “pucciava” senza scrupolo alcuno la punta del suo cornetto. Reazioni prive di rabbia da parte delle “vittime”; al massimo imbarazzo o risentimento, come di dignità calpestata, ma sempre con discrezione, a sguardo basso, molto spesso moti di generosità pura nei riguardi di chi, comportandosi così, mostrava indigenza, mancanza di soldi nel comprarsi la stessa bevanda.



E allora scattavano i "se vuole gliene pago uno", "non fa niente, si figuri", "non faccia complimenti", irreali e solidali. Un’Italia del Dopoguerra, senza l’orgia del consumismo, meno sospettosa, più premurosa, che certo non gridava “Ma siamo su Scherzi a parte?”, girando la testa in ogni angolo della stanza per cercare l’obiettivo della telecamera che in effetti c’era, dietro la vetrina dei liquori, pure nella tv modello Mike. Alle scenette di Nanni Loy, di finto pericolo o di pudore violato, seguirono le lunghe conversazioni nei vagoni dei treni nel successivo programma anni ’70 stavolta, “Viaggio in seconda classe”, con sedili, braccioli e finestrini interni trasformati in altrettante apparecchiature di un invisibile set cinematografico che intrappolava lungo un percorso delle Ferrovie Italiane decine di emigranti, artisti, umili operai, madri che raccontavano storie di povertà e coraggio.



Nasce così, almeno nella storia della televisione italiana, la freschezza ilare e di grande spessore sociologico, della “candid camera”, ovvero la macchina da presa “innocente”, lo zoom “galeotto” come potremmo tradurre tutti quei tentativi di aggirare il corpo a corpo, spesso aggressivo o posato, fra giornalista e intervistato rispetto al quale il pubblico degli spettatori si è presto abituato. Sistema su cui le Iene moderne di Italia1 hanno costruito il 90% del loro fascino catodico. E non solo loro. Ma tutti quei pool autorali che per scrostare pregiudizi e finzioni di una scena girata in diretta, e andare al nocciolo di certe fenomenologie sociali, hanno cominciato a infilarsi l’obiettivo nel taschino, sotto l’orlo delle cravatte, in spille nanotecnologiche, pur di sgamare il politico troppo chiacchierino, o la goccia avvelenata di malcostume che sfugge ai riflettori ufficiali.



Fino a una generazione di piccoli “bad boys”, allegri, scanzonati e ben organizzati che, come Antony, scompaginano tabù e ottusità che noi tutti ci sforziamo di capire con i sipari del giornalismo canonico quando basta una risata per far cadere tanti dal trono…
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